Michele Placido è un attore italiano, regista, produttore, produttore esecutivo, scrittore, sceneggiatore, montatore, art director, è nato il 19 maggio 1946 ad Ascoli Satriano (Italia). Al cinema il 7 novembre 2024 con il film Eterno Visionario. Michele Placido ha oggi 78 anni ed è del segno zodiacale Toro.
Un'icona del cinema italiano più che un suo volto familiare e irrinunciabile. Si forma alla Accademia Nazionale d'Arte Drammatica "Silvio D'Amico" ed esordisce a teatro, nel 1970, grazie a Luca Ronconi. La sua trasposizione dell'"Orlando furioso" di Ludovico Ariosto è un successo tanto di critica quanto di pubblica ed è una delle perle della gloriosa scena teatrale italiana degli anni Settanta, originando anche una versione cinematografica sempre curata da Ronconi.
Dopo il successo televisivo de Il picciotto, nel 1974 fa il suo ingresso nel mondo del cinema: al servizio di Mario Monicelli, e al fianco di Ugo Tognazzi e di Ornella Muti, è uno dei protagonisti di Romanzo popolare. Il talento evidente, combinato con il successo della pellicola, porta notorietà immediata: sempre nel 1974 è diretto da Luigi Comencini a fianco di Laura Antonelli (Mio Dio come sono caduta in basso) e nel 1975 Giuseppe Patroni Griffi lo vuole in Divina creatura. Sono commedie, e l'anima di Placido esige già il dramma: arriva presto, in ogni caso, grazie a Marco Bellocchio e al suo Marcia trionfale (1976), in cui recita insieme a Franco Nero. Con Carlo Lizzani gira poiKleinhoff Hotele, con Giuliano Montaldo,L'Agnese va a morire.
La sua voce potente, la sua traboccante energia sono sempre più popolari: Michele Placido è uno dei belli del nostro cinema. Appoggiato dai più grandi registi dell'epoca, Placido matura sia come uomo sia come professionista a tutto tondo, e non solo come attore. Nel 1983 arriva l'occasione della vita: Damiano Damiani lo vuole per il ruolo del commissario Cattani, il protagonista principale della serie televisiva La Piovra, un successo stratosferico a livello mondiale. Il ruolo di Cattani, impulsivo e anticonformista quanto insicuro e tutto sommato riservato, gli si addice alla perfezione, e Placido lo interpreta con trasporto più che creativo.
Il successo gli permette di farsi conoscere anche dalle nuove generazioni, sia di spettatori sia di artisti. Placido, del resto, sarà Cattani fino al 1989, anno della quarta serie deLa piovra e anno tragico della morte di Cattani. Pare specializzarsi in film sul Meridione e sul problema della mafia: al servizio di Damiano Damiani è ancora in Pizza Connection, con il giovane Marco Risi è in Mery per sempre, per Giuseppe Ferrara sarà Giovanni Falcone, il magistrato ucciso dalla mafia nell'attentato di Capaci, vicino Palermo.
Come Clint Eastwood in America, l'attore Placido è ambizioso e scalpita per far emergere la propria creatività di artista integerrimo e plurimo: nel 1990, tutti questi sforzi sfociano nella sua opera prima da regista, Pummarò, presentata a Cannes. Un esordio cui seguiranno, con costanza,Le amiche del cuore (1992), Un eroe borghese (1995), Del perduto amore(1998). Il Placido regista inizia ad accontentare il pubblico, con i suoi drammi a forte impatto spettacolare, ma convince meno la critica, proprio per la sua spericolata e rischiosa amoralità di matrice statunitense. Non rinuncia a spettacolarizzare il dolore, anche se ha dalla sua una valida stoffa e tecnica e una troupe di collaboratori che migliora di film in film.
Il film del 2002, Un viaggio chiamato amore, è incentrato sulla figura del poeta Dino Campana e sull'amore travagliato con la poetessa Sibilla Aleramo. Forte del premio veneziano per la migliore interpretazione maschile a Stefano Accorsi, Placido ci riprova due anni dopo con Ovunque sei, sempre con Accorsi protagonista insieme a sua figlia Violante Placido. Il film è un flop disastroso, accolto da fischi e accusato di poeticismo didascalico o di bassa pornografia (oggetto dello scandalo è anche un nudo integrale della figlia).
Placido si dimostra di nuovo grande autore, capace di risollevarsi dalla crisi, con Romanzo criminale, uscito nel 2005 e tratto dal best-seller di Giancarlo De Cataldo. Una grandiosa epopea picaresca e gangsteristica - il film, di fatto, parla dei "fatti della banda della Magliana" - come non se ne vedevano da tempi in Italia, capace di confrontarsi con modelli scomodi (Leone, Scorsese) ma di riflettere il presente desolante e incerto dell'Italia di oggi attraverso le cupezze e il sangue di un passato non del tutto risolto. Accusato ancora da certa critica un po' miope e troppo orientata politicamente, Placido è stavolta appoggiato dall'enorme successo commerciale.
L'uomo Placido, altrettanto schivo e ostico come l'attore, è stato sposato con Simonetta Stefanelli, l'attrice che ne Il padrino di Francis Ford Coppola interpretava la bellissima Apollonia, e ha cinque figli.
«Sono di sinistra, voto per l’Unione, l’altra notte ero alla festa di Milano dei Ds. Ho dato un sostegno forte alla candidatura e alla vittoria di Nichi Vendola, nella mia regione, contro i miei amici che mi prendevano in giro dicendo: “Quello è ricchione”. Ma non sono mai stato comunista: per una ragione banale, quella per cui non lo sono milioni di italiani che ricordano le file, a Mosca, per un rotolo di carta igienica. Votavo socialista, ero convinto. O meglio, fino all’arrivo dei salotti, delle Marta Marzotto, ero proprio un militante appassionato, come mio fratello Enzo, ora riparato – insieme a tanti ex – in Forza Italia, è a Lucca con Marcello Pera. Bettino Craxi voleva candidarmi alle elezioni, sedici anni fa, per il Parlamento Europeo. Lo ammiravo tanto, a combinare l’incontro fu Carlo Ripa di Meana. Ci trovammo alla Maiella, un grande ristorante che ora non c’è più, a due passi dal quartier generale romano del capo socialista; l’albergo Raphael. Ero, in quel momento, al massimo della popolarità per La Piovra. Craxi fu gentilissimo, eppure non mi guardava mai negli occhi, era sfuggente, inquieto, sembrava stanco, a pelle sentii che qualcosa in quell’uomo non andava. Mi candidai con Pannella, arrivai secondo dietro di lui. Ora che ci penso, tanti mi hanno cercato. Giorgio La Malfa, anni dopo, cercò di convincermi a presentarmi con i repubblicani alle politiche usando perfino Federico Fellini. Eravamo a Cinecittà, andammo a trovare il regista nel suo mitico Studio 5. Fellini mi disse che votava per il Pri, mi parlò dei repubblicani di Rimini, in Romagna, era un gran bel partito, diceva... Accettai. Quando arrivai a Foggia, che doveva essere il mio collegio sicuro, incontrai brutta gente, mi spaventai e lasciai perdere. Meglio così. Mi sono salvato sempre un minuto prima del tracollo.»
Michele Placido è arrivato in anticipo al nostro appuntamento, fissato nella tarda mattinata nel suo circolo di tennis sul lungotevere, «oggi non gioco, ho male al ginocchio». Il suo Romanzo criminale, dal romanzo di Giancarlo De Cataldo, con la sceneggiatura di Rulli e Petraglia, è stato un grande successo. Prodotto da Cattleya e dalla Warner, è la storia della banda della Magliana, un’associazione malavitosa molto trasversale, «sai che anche qui al circolo c’erano personaggi in qualche modo legati a quelle vicende?». Ha interpretato uno dei Silvio Berlusconi del Caimano di Nanni Moretti. «Sì, sono un attore di sinistra cui viene offerta la parte del Nemico.» È ancora un bell’uomo, piace molto alle donne, anche con i capelli tutti bianchi, lo sguardo è sempre di quelli che ti attraversano, il fisico in forma alla vigilia dei sessant’anni. «Ascoli Satriano, 19-5-‘46» lo dice come se fosse ancora il poliziotto che fu arruolato, come tanti ragazzi del Sud, nella Roma del 1965. Quasi tre anni in divisa, per rassicurare un padre geometra che non gli avrebbe mai permesso di fare l’attore. Nelle ore libere, in biblioteca nazionale a Castro Pretorio, a preparare l’esame all’accademia di arte drammatica. Tema del saggio, Le mani sporche di Sartre. Placido arriva mezzo vestito da agente e mezzo da attore alternativo, la commissione ride, nonostante la scena tragica che il candidato sta recitando, ma alla fine lo promuove. «Venivo da una famiglia semplice, di origine lucana. Otto figli, mamma casalinga, la Democrazia cristiana era il partito di riferimento. Abitavamo davanti alla cattedrale e al seminario, aprivi la finestra e ti beccavi un funerale o un matrimonio, papà è stato anche presidente dell’Azione cattolica, poi lasciò la politica, molto deluso, e morì a cinquantaquattro anni.»
Nella capitale, alla vigilia del Sessantotto, il giovane attore passa in un attimo «dal manganello alla contestazione contro i miei colleghi poliziotti. Saltai la barricata in pieno quando si trattò di occupare la scuola di teatro dove ero finalmente approdato. All’accademia, a capeggiare il presidio, c’era Gian Maria Volonté. Noi studenti eravamo affamati, l’occupazione comportava la presenza giorno e notte, un giorno chiesi a Gian Maria se potevo uscire un attimo a comprare pane e mortadella per i compagni, lui s’infuriò, urlando: “Cacciate quel reazionario, ma vi pare il momento di pensare alla mortadella?”. Tanto, loro mangiavano e noi no». Nei primi anni Settanta, Placido gira il mondo con la compagnia di Luca Ronconi: l’Orlando furioso del regista torinese conquista i palcoscenici di tutta Europa e viene accolto trionfalmente nella Parigi dove Bernardo Bertolucci sta girando Ultimo tango, a New York vengono ospitati da Andy Warhol e dalle comuni del Village. Il successo popolare arriva negli anni Ottanta con La Piovra, quello cinematografico con Un eroe borghese, storia di Giorgio Ambrosoli, il liquidatore dell’impero di Michele Sindona, ucciso per evitare che raccontasse la verità sui clienti illustri della Banca Privata Finanziaria. «In quel periodo ho conosciuto, diciamo che ho assaggiato lo stile Berlusconi. Ambrosoli era un personaggio scomodo, ma i dirigenti della Penta, la società del cavaliere allora si chiamava così, forse non lo conoscevano, quando firmarono il contratto con Pietro Valsecchi, il produttore e amico che volle quel film a tutti i costi. Al momento della proiezione, quegli stessi dirigenti uscirono dalla sala senza parlare, Pietro li inseguì urlando: “Ditemi almeno se è brutto o bello”. E quelli, niente. Silenzio. Il film fu abbandonato, non volevano farlo uscire. Lo distribuì l’Italnoleggio, in sale piccole, e Canale 5 lo vendette alla Rai come un sottoprodotto. Il 25 settembre 2006, a Roma, il comune dedicherà una strada proprio ad Ambrosoli, verrà anche il presidente Ciampi, sono stato invitato anche io. La verità è che Berlusconi, quando parla, mi sembra che non abbia un cuore, un’anima: parla solo di soldi, ha messo addosso agli italiani un cartellino con il prezzo. E poi, mi pare terribile che oggi, per diventare attori, invece che all’Accademia di arte drammatica, si vada in studio dalla De Filippi. Berlusconi ci ha fatto rimpiangere davvero la cara, vecchia cultura democristiana. Michele Placido dice di essere passato alla regia «perché, quando la bellezza sparisce, devi trovare un altro mestiere. È quello che hanno fatto, prima di me, tanti grandi, da Orson Welies a De Sica, da Chaplin a Germi». Il suo regista mito, però, è Francesco Rosi, «senza di lui, senza la sua invenzione di mescolare finzione e filmati di cronaca e di storia, non ci sarebbero mai stati né Oliver Stone con il suo film su Kennedy, né il George Clooney di Good night and good luck. Il primo documentario, Pummarò, lo girai quasi per caso. Ero a Capalbio, stavo per arrivare in spiaggia, vidi dei ragazzi africani che raccoglievano i pomodori. Mi fermai a parlare con uno di loro, mi spiegò che con due mesi in Italia riusciva a pagarsi l’università in Bulgaria. La storia piaceva a Valsecchi, che la raccontò a Claudio Martelli, ci aiutò, portammo il film a Cannes ed ebbe un grande successo». Corteggiato dai politici, l’unico a cui Placido abbia dedicato uno spettacolo è Pinuccio Tatarella, uno dei leader di Alleanza nazionale. «Mi volle conoscere, mi disse di apprezzare la mia passione, la mia vitalità. Morì mentre ero in scena e dal palcoscenico gli dedicai alcuni versi.» Di versi e di poesie parlò con Massimo D’Alema. «Venne a sentirmi senza farsi annunciare, mi esibivo a Parabita, un paesino a sette chilometri da Gallipoli. Alla fine dello spettacolo, mi disse che volentieri, se l’avessi chiamato sul palco, avrebbe recitato Leopardi.»
Prima di salutarci, Placido mi parla di un suo soggetto sul Sessantotto. Vorrebbe farne un film, «in ricordo di quegli anni in cui, a casa mia vicino piazza Navona, passava il mondo. Suonavi il citofono, la porta era aperta, e magari ti trovavi a dormire con qualcuno di cui non sapevi il nome». La nostalgia, il tempo che passa, il fiume che scorre sotto la terrazza del circolo. Della gioventù passata, un tratto resta indelebile in ciascuno di noi. Placido ha ancora al dito un anellino d’argento brunito, come quelli che gli uomini iniziarono a portare in quel periodo
Da Registi d’Italia, Rizzoli, Milano, 2006