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Tromperie - Inganno, la seduzione passa per il dialogo sapiente, per la parola accattivante

Da un romanzo di Philip Roth, un film che è un vortice di parole. Primi piani, giochi di luce, volti. Un homme, une femme: un uomo, una donna. E fra di loro parole, fiumi di parole. Dal 28 aprile al cinema.
di Giovanni Bogani

Léa Seydoux (39 anni) 1 luglio 1985, Parigi (Francia) - Cancro. Interpreta L'amante inglese nel film di Arnaud Desplechin Tromperie - Inganno.
martedì 26 aprile 2022 - Focus

“Je suis un fétichiste du verbe!”, dice lui. Sono un feticista della parola. Ed è esattamente così. Si potrebbe dire di tutto il film. Da un romanzo di Philip Roth, un film che è un vortice di parole. Primi piani, giochi di luce, volti. Un homme, une femme: un uomo, una donna. E fra di loro parole, fiumi di parole.

Léa Seydoux e Denis Podalydès sono amanti. Ma soprattutto, si parlano. Lui, scrittore ebreo americano finito a Londra, lei moglie insoddisfatta, infelice, tradita dal marito. Si incontrano, si parlano. Scivolano fra le parole. Eleganti, disinvolti, intellettuali. Parole, parole, parole. Parole, soltanto parole, parole fra loro. La seduzione che passa per il dialogo sapiente, per la parola accattivante. Questo è Tromperie: prendere o lasciare.

Quando sullo schermo ci sono loro due, Léa Seydoux e Podalydès, tutto corre sul filo dell’attrazione, come in un “Ultimo tango a Londra” tutto intellettuale, meno selvaggio e violento. E mentre le parole si rincorrono, artifici teatrali: fondali che scompaiono, luci che vengono accese o spente intorno ai volti dei protagonisti, fondali neri che invadono lo schermo e isolano il volto di lei, fondu come nel cinema muto. O come in un film di Bergman, Monica e il desiderio, con Harriett Andersson.

Chissà. Forse solo il cinema francese ha la forza, o il coraggio, di presentare un film così nudo, vestito solo di parole. Il cinema italiano ha bisogno della commedia, dell’iperbole, dell’equivoco. Il cinema americano ha bisogno dei supereroi. Forse solo il cinema francese può ancora puntare tutto sull’insostenibile leggerezza della parola, in un film tutto di interni, in cui non ci sono inseguimenti per le strade, in cui non c’è nessuna forma di suspense. Protagonisti sono due amanti, ma non c’è il timore di essere scoperti, non ci sono scene madri da aspettare.

È come se vedessimo due camminare su un filo. Lei cammina sul filo della sua infelicità, lui la ascolta. Le storie immaginate si mescolano ai dettagli reali, tutto il film sembra sospeso fra quello che viene vissuto e quello che viene immaginato.

Tutto viene raccontato per quadri. Fra la storia di Léa Seydoux e Podalydès, se ne alternano altre: lui con la moglie non più giovane e non più bella, lui con una ex studentessa brillante dal precario equilibrio nervoso, devastata dagli elettroshock. E lui con una sua ex, malata di cancro, divorata dal terrore di morire. Lui, il feticista delle parole, usa la voce come un virtuoso, le calma, le lusinga, le seduce, le accompagna nelle loro riflessioni. Se non ci fosse un attore la cui voce è un’orchestra intera, probabilmente il film non riuscirebbe a sedurci. Così, ci riesce.

Non c’è un esterno, non c’è una strada, non c’è la gente. Ci sono soltanto loro. I due amanti, la casa di lui, la macchina da scrivere, i libri, i divani, le parole, tazze di caffè palesemente senza una goccia di caffè dentro, parole, carezze, lacrime, cuscini, attaccapanni, corridoi, parole, addii, ritorni, slittamenti progressivi dell’amore. Se fosse un film di Truffaut, si chiamerebbe “L’uomo che parlava alle donne”. O l’uomo che immaginava le donne, forse. Cambia qualcosa, in fondo? Vivere un amore o immaginarlo, con tutti i suoi dettagli, con le sue parole, con le sue sofferenze, in fondo è la stessa cosa, sembra dirci il film.


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