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L’angelo dei muri, un film di genere che coglie i pensieri inconsci di una società e le ossessioni di un’epoca

A vent’anni esatti dall’esordio Lidrîs cuadrade di trê, capace di diventare un cult della scena indipendente, Bianchini amplia stilisticamente e produttivamente il suo cinema, realizzando quello che lui stesso ha definito «un dramma psicologico dove trovano spazio elementi magici». Al cinema.
di Roberto Manassero

sabato 11 giugno 2022 - Focus

L’angelo dei muri è stato presentato nel novembre scorso, in prima mondiale, al Torino Film Festival: per il suo regista Lorenzo Bianchini si tratta del primo film con una produzione mainstream, grazie alla coproduzione fra la Tucker (al debutto nel settore produttivo), Rai Cinema e MYmovies, e del primo lavoro fuori dal genere horror.

A vent’anni esatti dall’esordio Lidrîs cuadrade di trê (2001), all’epoca vero e proprio caso di cinema regionale (girato e prodotto in Friuli, parlato in dialetto friulano) capace di diventare un cult della scena indipendente, Bianchini, confermatosi poi con Custodes Bestiae (2004), Film sporco (2008), Occhi (2010) e Oltre il guado (2013), ha saputo ampliare stilisticamente e produttivamente il suo cinema, arrivando a realizzare quello che lui stesso ha definito «un dramma psicologico dove trovano spazio elementi magici».

Favola nera o thriller dell’anima (altre possibili definizioni del film che Bianchini non rinnega), L’angelo dei muri racconta la storia di Pietro, un anziano signore triestino a cui viene comunicato l’avviso di sfratto, dopo anni passati nel suo vecchio appartamento. Messo alle strette, Pietro inventa una strategia per continuare a vivere segretamente dentro casa: costruisce un muro in fondo al corridoio dell’appartamento e crea per sé un nascondiglio verticale dietro il quale sparire.

Inevitabile, alla luce di ciò che è successo negli ultimi anni, pensare alla trama del film come a una rielaborazione di situazioni e pensieri generati dalla pandemia: L’angelo dei muri non è però un “Covid-movie”, nato dal confinamento imposto dalla pandemia, alla maniera dei lavori di Daniele Vicari (Il giorno e la notte) o Roan Johnson (State a casa), ma un film di genere che come tale ha la capacità, se non di prevedere il futuro, almeno di cogliere i pensieri inconsci di una società, i timori di un’epoca, le sue ossessioni, le sue paure.

Dietro la decisione del protagonista – interpretato dal grande francese Pierre Richard, celebre per i tanti ruoli in commedie, qui usato in una versione distorta di sé stesso – c’è la paura dell’altro, la protezione dello spazio personale, che man mano che la vicenda prosegue si illumina di una luce sinistra e ambigua. Da un lato Pietro difende il proprio diritto a vivere escluso dalla contemporaneità, dall’altro, però, nella sua ostinata solitudine è costretto dagli eventi a mettere in dubbio le proprie scelte e ridefinire l’idea di resistenza e isolamento.

La svolta del film arriva quando il protagonista, che all’interno del suo cubicolo ha installato una grata per respirare, creato una fessura per simulare un lucernaio e praticato dei buchi per spiare i suoi “nemici”, si trova ad affrontare l’arrivo di una donna disperata in cerca di protezione per sé e la figlia. Chi è la donna? E cosa può dare a Pietro, nonostante sia percepita come un invasore.

Nel confronto fra Richard e l’interprete della donna, l’attrice slovena Iva Krajnc Bagola, emerge l’elemento di maggior maturità del cinema di Bianchini, al di là della consueta abilità nel creare situazioni di tensione insinuante: la capacità, cioè, di gestire a livello di regia – grazie anche al contributo del direttore della fotografia Peter Zeitlinger, storico collaboratore di Herzog (Grizzly Man, Incontri alla fine del mondo, Il cattivo tenente, Cave of Forgotten Dreams, Into the Abyss…) – la relazione fra i corpi e gli spazi, per di più nel contesto soffocante di un mondo nel mondo, di una prigione che interpreta le paure più profonde di un uomo anziano mai veramente cresciuto.


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