
|
Ultimo aggiornamento martedì 14 giugno 2022
Il regista Baz Luhrmann si dedica alla vita della grande rockstar Elvis Presley. Il film ha ottenuto 8 candidature a Premi Oscar, 1 candidatura a David di Donatello, 3 candidature e vinto un premio ai Golden Globes, 8 candidature e vinto 4 BAFTA, 7 candidature e vinto un premio ai Critics Choice Award, 1 candidatura a SAG Awards, ha vinto un premio ai CDG Awards, 1 candidatura a Producers Guild, Il film è stato premiato a AFI Awards, In Italia al Box Office Elvis ha incassato 3,3 milioni di euro .
CONSIGLIATO SÌ
|
Nascita, crescita, apoteosi e inizio di declino di Elvis Aaron Presley, il mito di più generazioni, vengono raccontati e riletti dal punto di vista del suo manager di tutta una vita: il Colonnello Tom Parker. È lui che accompagna, con voce narrante e presenza in scena, la dirompente ascesa di un'icona assoluta della musica e del costume mentre si impegna, apertamente ma anche in segretezza, per condizionarne la vita con il fine di salvaguardare la propria.
Baz Luhrmann fin da ragazzino che viveva nel Nuovo Galles del Sud in Australia, aveva il desiderio di incontrare Elvis. Presley. La sua morte aveva reso impossibile quel sogno. Il cinema ora gli ha consentito di farlo divenire trasposta realtà.
Se non ci fossero state esigenze di immediata riconoscibilità e di sintesi comunicativa questo film avrebbe potuto tranquillamente intitolarsi "Elvis, io e voi". Perché il punto di vista narrativo sin da subito è quello di un mistificatore per eccellenza, quell'Andreas Cornelis van Kuijk che pretendeva di essere americano e si faceva chiamare Tom Parker. È l'uomo che condizionerà la vita di Elvis anche in modo molto pesante ma che non rinuncerà, nel corso del film, a chiamare a complice e, in alcuni casi, a correo il pubblico cioè coloro che hanno amato e adorato "The Pelvis".
È nell'intreccio di queste tre dramatis personae che si sviluppa lo split screen di una vita con la quale il cinema di Luhrmann raggiunge il suo punto più alto realizzando un appuntamento a cui il suo stile non poteva sottrarsi. Perché il suo spettacolarizzare ciò che già di per sé ha tutti gli elementi dell'entertainment raggiunge qui la massima potenza liberandosi dalla gabbia del manierismo. È la vita stessa della star, che con il passare dei decenni conserva intatto il suo carisma, che gli ha offerto la partitura visiva che va a declinare utilizzando tutta la tecnologia attualmente disponibile ma non avendo mai neppure una singola inquadratura fine a se stessa.
Tutto ciò grazie anche a due interpretazione che definire magistrali è dir poco. Di Tom Hanks si credeva di conoscere tutto dal punto di vista del repertorio professionale ma il suo Colonnello Parker aggiunge una pietra miliare alla sua filmografia. Lo si osservi quando, indossate sul corpo debordante le vesti del padre putativo generoso, guarda da sotto in su quella che ritiene essere la sua sempre manipolabile creatura. Nei suoi occhi, più che nell'espressione della sua bocca, si legge tutta la malignità di quegli gnomi che in alcune fiabe solo apparentemente stanno dalla parte del Bene.
Ma è il trentunenne Austin Butler che rappresenta la grande sorpresa. Con una filmografia non travolgente alle spalle riesce a battere i pur validi Rami Malek di Bohemian Rhapsody e Taron Egerton di Rocketman. Il motivo? Butler non interpreta Elvis. È Elvis. Chi avrà modo di vedere anche la versione originale potrà verificarlo sequenza dopo sequenza, inflessione vocale dopo inflessione vocale. La sua è un'adesione totale alla persona e al personaggio permettendo così a Luhrmann non solo di narrarne il percorso professionale ma di leggerlo anche su un ancor più complesso piano storico e sociale.
Visto dall'Australia Presley diviene simbolo di due fondamentali elementi molto made in USA. Se da un lato quel 'voi' viene utilizzato per leggere la creazione di un mito da parte di un pubblico che lo avverte come proprio e al contempo lo adora mentre lo divora (e potremmo dire di aver già visto trattare questo topos, con uno stile paragonabile, solo dal cinema di Oliver Stone) c'è un altro aspetto che ritorna insistentemente e che va ben oltre la celebrazione rutilante di un mito. Si tratta del tema dell'integrazione attraverso la musica.
Quell'Elvis ragazzino che passa dallo spiare i canti e i balli afro proibiti alla chiesa dove quella stessa anima black si esprime negli inni e nei balli dedicati al Signore tornerà a far memoria di sé nel corso del film trovando nella lucida malignità di Parker l'esigenza di far ritornare 'bianco' quel ragazzo che ha animo e atteggiamenti che per l'America conservatrice incitano alla lussuria e alla perversione. Termini, questi, che nascondono la profonda irritazione nei confronti di chi non nasconde e non vuole nascondere la sua artistica ed intima adesione a un'integrazione che quell'America non voleva e ancora oggi, seppure in parte, non vuole.
Non è necessario possedere tutti i dischi di Elvis né essere stati in pellegrinaggio a Graceland a Memphis per apprezzare questo film. È sufficiente poter accettare l'idea che il cinema possa essere grande intrattenimento e spettacolo senza rinunciare a far pensare. Elvis di Luhrmann lo è.
Austin Butler è un 28enne che si è fatto conoscere nel ruolo di Derek nella serie Disney Channel Hannah Montana ed è stato scelto da autori importanti come Jarmusch (I morti non muoiono) e Tarantino (C'era una volta a... Hollywood, dove non sfigura al fianco di mostri sacri come Brad Pitt e Leonardo DiCaprio). Ebbene Austin è stato scelto per dare corpo e volto a Elvis Presley. Nel cast anche Tom Hanks, nella parte di Tom Parker, il manager olandese che organizzò la carriera di Presley, tutelandolo anche da amico. Sono scarse le notizie trapelate, ma sembra che il focus sarà sui decenni fondamentali del fenomeno, gli anni sessanta e settanta.
Credo che nessun artista sia stato più raccontato di Elvis. La massa è troppo grande, dunque occorre fare delle scelte e fissare dei punti fermi. Perché Presley è stato proprio tutto, un inventore, un modello, un ribelle, naturalmente un mito.
Il suo abbrivio, l'eredità, le modalità, la traiettoria non hanno avuto soluzione di continuità. Presley è non è mai assente. Giusto una citazione: credo che in Mahmood, con la sua canzone, Soldi, a Sanremo, ci fosse qualcosa di Elvis. Dunque non occorre riavvolgere il nastro e tornare a tempi lontani, quando gli emuli si chiamavano Celentano, Bobby Solo e Little Toni. In Francia Johnny Halliday e in Inghilterra Billy Fury.
Sopra dicevo "decenni fondamentali", in realtà ancora più decisivi sono stati gli anni cinquanta. Quando il cantante è esploso, quando "rock" era roba nuova e rivoluzionaria, che fece anche delle vittime, illustri. Improvvisamente gente Bing Crosby, Perry Como, Dean Martin, lo stesso Sinatra erano sorpassati. Elvis, con quei suoi movimenti del bacino e delle gambe, in jeans, umiliava la staticità di cantanti che, in abito elegante, spesso in smoking, muovevano solo le mani.
Negli anni sessanta di Presley prevale il cinema. La Metro-Goldwyn-Mayer gli fece un contratto importante. L'idea era quella di rinverdire la stagione dell'epoca precedente, quella di Gene Kelly e Fred Astaire, quando il musical si era accreditato come l'unica vera forma d'arte tutta americana, con qualità altissima, con titoli come Un americano a Parigi, Cantando sotto la pioggia e Sette spose per sette fratelli. Quando il musical aveva persino toccato Shakespeare, rifacendo testi "seri" come 'La bisbetica domata' e 'Romeo e Giulietta'. Quei fasti non furono rinverditi, ma Elvis fece il suo. Nei suoi musical non occorrevano plot particolari, bastava che cantasse. E certo valeva la sua presenza, come nell' "Idolo di Acapulco", dove bello e atletico, si tuffava dagli scogli subito dopo avere sedotto la bellissima con una canzone.
È doveroso contestualizzare la nascita artistica di Presley, che cominciò nel 1954 quando aveva 19 anni. Viveva nella cittadina di Tupelo, contea di Lee, Mississippi. Luogo decentrato, ma dalle metropoli delle coste, soprattutto da New York arrivava l'onda potente delle rivoluzioni di quel decennio, che toccavano tutte le discipline, dalla pittura, al jazz e nella musica pop. La gente si incontrava nei night, nei loft e nelle strade. Un mondo composito e ricco, una bella miscela alternativa che si imponeva. E poi attori del metodo, ballerini, pubblicitari, architetti, fotografi, stilisti, scrittori naturalmente. E tanto altro. Tutto. Broadway splendeva di luce abbagliante, con proposte diverse: dai musical di Porter e Berlin, ai drammi di Williams, Inge e Miller.
La televisione si stava espandendo con mezzi cospicui, per contrastarla il cinema evolveva qualità e spettacolo. Ed è probabile che Elvis non fosse consapevole delle prime teatrali o delle uscite dei romanzi di Faulkner o Mailer, ma quel sortilegio che tutto stava cambiando, quella smania di creare, non c'è dubbio che arrivasse a lui. E poi c'è l'altra faccia della medaglia: l'America, così entusiasta e ricettiva, era pronta per accogliere qualcosa di nuovo, il rock. Era pronta per Elvis Presley.
E veniamo agli anni Settanta, che sono quelli del declino. I video ce lo hanno mostrato tante volte, negli studi o ai concerti, appesantito, affaticato, con quei suoi costumi esagerati, col sudore che pareva sprizzare dallo schermo. E poi è morto. Quel 16 agosto del settantasette.