L’attenzione del regista in questo nuovo film si focalizza sulle condizioni di lavoro a cui sono costretti i drivers delle consegne a domicilio. Dal 2 gennaio al cinema.
di Giovanni Bogani
Sono tanti anni che Ken Loach racconta la povera gente, la sua bellezza, la sua rabbia, la sua fatica di vivere. O meglio, che racconta come la gente ci finisca, povera. Sfruttata, e rabbiosa. Sono cinquant’anni che racconta questa gente con forza, con ironia, con partecipazione, con delicatezza, con rispetto, con indignazione. In Gran Bretagna, ma anche a New York o in America latina. Dovunque ci sono persone che sputano energia e vita per lavorare in condizioni meno precarie, meno rischiose, meno umilianti.
Sono cinquant’anni che sviluppa il suo racconto sull’umanità dei singoli e sulla disumanità del sistema, e non suona mai falso, mai scontato. E vorremmo non dover temere il giorno in cui quell’ometto di ottantatré anni con i capelli sottili, la voce educata, gli occhiali rettangolari non avrà più la forza di girare i suoi film appassionati, toccanti, necessari. Film mai scomposti, mai poggiati su frasi o accuse vaghe, sempre densi di dettagli, di concretezza, di verità.
È una verità che nasce, anche, dal meticoloso lavoro di ricerca di Paul Laverty, sceneggiatore di tutti i film di Loach da trent’anni a questa parte. Laverty è andato a raccoglierla, questa verità, fra i drivers delle consegne a domicilio, quelli che fanno funzionare Amazon e tutte le economie dell’ “a casa con un clic”.
Siamo a Newcastle, la stessa città dove era ambientato il precedente film di Loach, Io, Daniel Blake. Qui Ricky, sulla soglia dei cinquant’anni, cerca di reinventarsi come autista per le consegne a domicilio. Per tutta la vita ha lavorato senza riuscire a mettere da parte niente, senza poter dare nessuna scintilla di benessere alla sua famiglia. Adesso, la nuova scommessa, forse l’ultima.
“Tu non lavori per noi, tu lavori con noi”, gli dice l’uomo che gli fa il colloquio di lavoro. “Tu vieni on board, sei con noi”. Belle parole. La realtà sarà diversa. Un lavoro nel quale non puoi sgarrare, non puoi fermarti neanche se la tua famiglia sta andando a rotoli, neanche se hai le costole rotte; un lavoro dove ogni secondo di ritardo si paga, dove la parola chiave è “pay” – tutto si paga, le consegne non fatte in tempo, gli oggetti che ti rubano dal furgone – e dove ti sembrerà indispensabile una bottiglietta di plastica vuota, per orinare lungo il cammino e non perdere tempo.
Li chiamano “zero hours contracts”. Lavori da free lance puro. Dove non c’è nulla di garantito. Dove non puoi perdere un colpo, un minuto, una consegna. Per nessun motivo. Nessuna tutela del lavoro. Una nuova forma di schiavitù, dove ti illudi di essere padrone del tuo destino.
È il capitalismo allo stato puro. Ognun per sé, tutti contro tutti. Quando la situazione diventerà da allarme rosso, quando il protagonista chiederà, come ultima soluzione, il protagonista chiederà qualche giorno di permesso, il boss gli risponderà: “Vuoi saltare un giorno? Non puoi. Gli altri autisti che me l’hanno chiesto credi non abbiano problemi? Chi ha la sorella che ha avuto un infarto, chi deve operarsi; un altro ha sua figlia che ha tentato il suicidio. Alla fine c’è sempre un problema. Ma non puoi fermarti. Mai. Ai clienti non importa se ti addormenti al volante o se prendi in pieno un autobus. Gli importa il prezzo che paga, e se l’oggetto arriva in tempo”. Quando dei teppisti gli spaccano la faccia, un paio di costole e forse gli perforano un polmone, per lui ci sarà una penale di 1000 sterline per gli oggetti che gli hanno rubato.
Trova sempre dei volti magnifici per raccontare le sue storie, Loach. E sono sempre volti nuovi, spesso gente che col cinema ha avuto poco a che fare. Come questo Kris Hitchen, il protagonista: una specie di Paul Scholes orgoglioso e combattivo, capelli rossi e fede Red – Manchester United, tutta la vita. Hitchen ha fatto l’idraulico, nella vita, e poi ha guidato un furgone per le consegne a domicilio, come il suo personaggio. Ken Loach lo ha portato a recitare col suo metodo abituale, senza rivelargli la storia tutta intera, ma solo giorno per giorno: portandolo a vivere ogni momento, senza sapere il disegno finale.
Ad ogni film ti aspetti l’incrinatura, qualche attore che suona falso, che “si sente che recita”. E non lo trovi. E senti una consonanza immediata e fortissima con la moglie. Si chiama Debbie Honeywood l’attrice. Fa visite a domicilio per una ditta di servizi sociali. E si trova alle prese con vecchie fuori di testa, anziani avviliti, giovani paralitici. Senza uno scatto di nervi, di insofferenza verso quelle sofferenze. E il cinema di Loach, attento al dettaglio, dà un tocco di grande cinema, di grande attenzione umana. In una scena in cui lei e il marito sono nel letto, lui sente qualcosa: “Ma ti sei messa il Vicks?”. E lei, quasi scusandosi: “No, è che lo metto sotto il naso quando entro in case in cui c’è un odore tremendo…”. L’orrore fatto intuire, reso evidente, in una frase minuscola. Anche questo è grande cinema.