Cliché? Luoghi comuni? O archetipi e costanti narrative? Di fronte all'ultimo film di Francesca Archibugi ci si dividerà senz'altro tra chi soffre il ripetersi martellante delle consuete retoriche narrative e chi scorge invece nell'adattamento e nelle minime variazioni lo spazio per raccontare le trasformazioni sociali di oggi.
Difficile, in questo caso, non vedere il bicchiere mezzo vuoto. In che senso Il nome del figlio sembra il progetto di chi pensa che mescolando i fattori il risultato non cambi? Non si tratta certo di stigmatizzare la pratica dell'adattamento, arte italiana se ce n'è una e di solito foriera di buoni risultati. In questo caso, la presenza di un testo teatrale (prima) e di una trasposizione francese (dopo) rappresentano anzi il tessuto più interessante su cui innestare il trapianto del remake.

Il problema è proprio la trasformazione nello scenario socioculturale italiano. Sarà la presenza di Francesco Piccolo in sede di sceneggiatura (autore letterario che ormai sembra caricare su di sé tutto il processo di ricollocazione dell'uomo di sinistra berlingueriana nell'epoca Renzi), sarà la riconoscibile mano di Paolo Virzì in sede produttiva, in ogni caso Il nome del figlio ha tutta l'aria di aggiornare la dicotomia destra/sinistra e la presunta dialettica tra le due Italie (il ceto produttivo cinico e illetterato contro il ceto scolastico/ministeriale onesto ma ipocrita), che compare a intervalli regolari. Basta citare Italia-Germania 4-3 e Ferie d'agosto per capirci.

Inoltre, il topos della cena come sfogatoio dei rancori parentali e delle confessioni scomode è un usato sicuro, ma solo per chi ha voglia di abboccare all'amo. Pochi mesi fa, abbiamo assistito a un altro film dalle dichiarate intenzioni allegoriche - I nostri ragazzi - dove Lo Cascio e Gassman interpretano gli stessi, identici ruoli di Il nome del figlio. Non bastasse, il film di Ivano De Matteo è una libera trasposizione di un libro di Hermann Koch intitolato proprio "La cena". Di pasti in famiglia con regolamenti di conti ne troviamo a bizzeffe nel cinema italiano, alcune formidabili (Parenti serpenti) altre meno (Il pranzo della domenica, peraltro con Rocco Papaleo, e Il più bel giorno della mia vita, ancora con Lo Cascio).
Il rischio di un film come quello di Francesca Archibugi si nasconde nei personaggi e negli attori che li interpretano. Il connubio tra gli uni e gli altri appare davvero soffocante. Possibile che Luigi lo Cascio non si possa sottrarre alla figura dell'intellettuale di sinistra, timido, orgoglioso e un po' isterico, interpretato già in La meglio gioventù, Il capitale umano, I nostri ragazzi e così via? Possibile che, dopo Tutta la vita davanti, La prima cosa bella, Questione di cuore e altri titoli, Micaela Ramazzotti debba sempre interpretare la bella coatta, svampita ma sincera? Ci sono poi altre tipologie recitative più sottili ma altrettanto radicate: Valeria Golino rappresenta la donna al servizio dello stato e casalinga malinconica, come in Il ragazzo invisibile (forze dell'ordine), direttrice del carcere (Come il vento), assistente sociale (Il capitale umano), Guardia di Finanza (A casa nostra), insegnante di scienze (La scuola è finita); qui invece è docente precaria.

Ovviamente, la continuità di ruolo è consueta e persino auspicabile nel cinema come industria. Purtroppo, però, nella produzione nostrana, dove nel cinema d'autore gli interpreti sono sempre gli stessi, sarebbe rinfrancante variare almeno i personaggi.