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Il figlio patriarcale

Psicologia familiare in Father and Son.
di Roy Menarini

In foto una scena del film.
Yôko Maki (41 anni) 15 ottobre 1982, Chiba (Giappone) - Bilancia. Interpreta Yukari Saiki nel film di Kore'eda Hirokazu Father and Son.

domenica 6 aprile 2014 - Approfondimenti

Non esiste un vero lessico famigliare nel legame dei Nonomiya. Il papà cela a fatica la delusione nei confronto di un figlio - di soli sei anni - che gli sembra lontano dalla sua fame di successo e di affermazione sociale. La madre, in un Giappone che ci aspettavamo meno patriarcale all'altezza degli anni Duemila, pungola e critica il marito ma non osa contrastarne le decisioni. Quando, nel dramma che si scatena all'inizio di Father and Son, comincia a temere di perdere il suo piccolo Keita, immagina brevemente di andarsene con lui, ma il pensiero - di una separazione, un divorzio, o semplicemente una presa di posizione - sembra quasi impossibile. È ragionevole, invece, per i protagonisti della dolorosa vicenda (accorgersi sei anni dopo che il proprio figlio è stato scambiato in culla con un altro), invertire i consanguinei e cercare di dimenticare le creature con cui si è vissuto per tanto tempo. Lo spettatore occidentale rimane quanto mai spiazzato: chi sono questi personaggi che partono da premesse psicologiche farneticanti e vengono consigliati da legali e burocrati altrettanto alterati? Chi sono questi padri e queste madri che giudicano anche solo praticabile l'idea di disfarsi di un bambino per accogliere un estraneo, sia pure dello stesso sangue, interrompendo traumaticamente un'educazione e spezzando un nucleo di affetti custoditi e cresciuti, per avventurarsi in un nuovo rapporto, fragile e ovviamente deludente?
In buona sostanza, per noi europei non è chiaro se il gusto del paradosso appartiene fin dalle premesse a Hirokazu Koreeda, oppure se - con sorpresa - siamo noi ad essere spiazzati da quel che potenzialmente potrebbe avvenire in Giappone, persino tra persone di buon senso e professionisti totalmente integrati nella società.
Superata (o meglio, lasciata inevasa) questa domanda antropologica e fors'anche politica, possiamo dire che di Father and Son piace lo straordinario pudore. Il fatto che il film non appartenga al melodramma non è solamente questione di trattamento dei materiali e di stile trattenuto, ma proprio di atteggiamento narrativo. Koreeda aveva due strade davanti a sé: far salire la temperatura emotiva del suo straziante racconto fino a travolgere i personaggi stessi, oppure legare lo stile di regia (limpido, quasi sereno) alla dignità dei protagonisti, abbracciandoli tutti con uno sguardo diretto e solidale. In questo senso, poi, laddove certe forzature simmetriche mostrano la corda (guarda caso, il papà protagonista anempatico è figlio a sua volta di un padre sentimentalmente freddo e per di più è cresciuto senza la madre, separata e lontana), la complessità psicologica dei personaggi appare invece rara e riuscita. Specialmente l'altra famiglia, quella dei "rivali", che si presenta come rozza e caotica, prende via via il centro della scena e si dimostra assai più vitale, accogliente e umana di quella con cui noi spettatori siamo chiamati a identificarci fin dall'inizio del racconto.
E, infine, un'altra prova della compostezza e della precisione di Father and Son: pur nel solco tradizionale dei rovinosi doppiaggi in italiano dei film giapponesi (ormai quasi un mito al contrario per la storia della cacofonia cinematografica), questa volta si riesce a entrare nella vicenda e a sentirsi vicini al mondo rappresentato (e ai suoi abitanti). Merito di un film che propone un dilemma universale, anche se declinato secondo logiche probabilmente locali.

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