Il rischio era di annoiarsi (so che a qualcuno è risultato pesante) come è possibile che avvenga con le trasposizioni cinematografiche di testi teatrali (Il dio del massacro di Yasmina Reza), tanto più se tutto il racconto si svolge in poco più di una stanza: salotto, cucina, salotto, pianerottolo, salotto, bagno, salotto di casa Longstreet, dove i genitori di Ethan accolgono i coniugi Cowan per un confronto civile su un incidente “incivile”, per cui Zachary, figlio undicenne dei Cowan, ha rotto i due incisivi di Ethan, il piccolo Longstreet.
Un film girato in interni, dunque (due settimane di prove prima del ciak, per arrivare già preparati alle riprese), tranne un prologo e un epilogo di due minuti scarsi l’uno.
Un’ora e venti di durata, perché il rischio, in questi casi, è appunto quello di infastidire lo spettatore e perché il film è la trasposizione fedele della pièce teatrale (a parte il finale più ottimistico); un tempo che mi è sembrato troppo breve, perché mi sono divertita e sarei rimasta un giorno intero ad ascoltare quei quattro – e che quartetto! – che, alla fine, si dicono di tutto, sviscerando quello che hanno dentro – tra cui la pochezza delle loro convinzioni – fino ad affermare, a turno, che quello – della presa d’atto – è stato il giorno più brutto della loro vita.
Ci si immedesima nei personaggi, con i loro vizi e le loro debolezze, che – alla resa dei conti (in senso letterale) – diventano quasi virtù, in quanto umani. Nell’isteria di Penelope (Jodie Foster) e nella frustrazione sentimentale di Nancy (Kate Winslet). Nel qualunquismo di Michael (John C. Reilly) o nell’arrivismo di Alan (Christoph Waltz). O, se siamo così fortunati o così ipocriti da non rispecchiarci in almeno uno dei personaggi, di sicuro in loro possiamo ritrovare i tratti di qualcuno a noi vicino.
Unica nota stonata – anzi, meglio definirla stridula – il doppiaggio della povera Jodie Foster il cui personaggio, una petulante intellettuale di sinistra, già dall’inizio non brilla per simpatia e, ancor meno, per merito/demerito della voce che la doppia. Non appena apre bocca, è immediato pensare: devo andarlo a vedere in lingua originale (anche se, per i fitti dialoghi, non dev’essere una passeggiata). Inoltre, pare che nel doppiaggio molto si perda: anche perché si gioca sulla differenza di accento (che in italiano si annulla) per rimarcare la diversa appartenenza di classe sociale della due famiglie.
E forse proprio perché sarei rimasta ad ascoltarli per ore il finale mi è parso mozzato. Sospeso, okay, ci sta, perché vista la situazione che si crea non si può andare a parare da nessuna parte, ma avrei fatto pronunciare alla Winslet mezza frase in più per smorzare l’effetto mannaia.
Ad ogni modo questa carneficina (Carnage) s’ha da fare e sarà per puro gusto personale, ma a me le trasposizioni cinematografiche di testi teatrali mi sembrano il più delle volte (8 donne e un mistero, La cena dei cretini…) esperimenti ben riusciti.
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