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E il sesso poté più dei blockbuster

L'incredibile successo di Sex and Zen 3D.
di Emanuele Sacchi

In foto una scena del film Zex and Zen 3D.

giovedì 29 settembre 2011 - Approfondimenti

La notizia ha fatto il giro del mondo; con un risalto che non toccava più a Hong Kong e al suo cinema da tempo immemore. Sex and Zen 3D: Extreme Ecstasy ha incassato – a fronte del suo budget risibile di 300 mila euro – la bellezza di 11,53 milioni di euro in una settimana, di cui 255 mila nel primo giorno di programmazione, ben 20 mila in più di Avatar di Cameron. Cifre e notizie che appartengono al passato remoto dell'ex-colonia, agli anni '80 e primissimi '90, in cui la allora terza industria cinematografica al mondo era una delle pochissime a relegare i blockbuster americani in posizioni defilate nelle classifiche del box office. Che questo ritorno di fiamma avvenga oggi, per un film erotico in 3D che rappresenta il non plus ultra in termini di exploitation, forse lascerà l'amaro in bocca agli amanti del cinema di Hong Kong che fu - dal lirismo di Wong Kar-wai al gusto per la meraviglia di Tsui Hark - ma certo rappresenta un dato incontrovertibile, di quelli che non possono essere sottovalutati. Quel target che un tempo alimentava gli sproporzionati - rispetto alla popolazione effettiva - incassi del prolifico cinema in cantonese, distribuito tra Hong Kong, Taiwan, Tailandia e comunità cinesi in giro per il mondo, non esiste più. Le maestranze di allora sono totalmente inglobate nella nascente macchina produttiva della Cina Popolare e la spinta verso il blockbuster in mandarino, con velleità di contrapposizione Cina-Usa (il caso di Confucius su tutti), si è fagocitata (quasi) tutto. In un contesto simile il successo di Sex and Zen 3D rappresenta uno choc, un'inversione di rotta: il fatto di non essere stato distribuito in Cina ne ha aumentato in maniera spropositata gli incassi, attirando pubblico disposto a spostarsi dalla Cina continentale a Hong Kong appositamente, affrontando l’ufficio immigrazione e le sue procedure burocratiche pur di appagare il proprio gusto del proibito; in base allo stesso meccanismo che porta gli abitanti di Shanghai a Macao per giocare d'azzardo o per altre peccaminose tipologie di intrattenimento che l'intransigente Repubblica Popolare non contempla né approva. Un curioso fenomeno capace di dimostrarsi più forte del divieto ai minori di 18 anni e relativo a un film che punta tutto sul marketing, ma che non fa niente per nascondere la fragilità del contenuto.

L’epopea del cinema Categoria III
Per contenuti, spirito e stereotipi, oltre che per il titolo, il film di Christopher Sun si rifà al capostipite di un brand di successo e di un'intera ondata di film genere Categoria III (più che un genere, un insieme disordinato di pellicole hongkonghesi vietate ai minori, mai porno ma solitamente ricche di erotismo e/o violenza esplicita), il Sex and Zen originale di Michael Mak. Uscito nel 1991, lo si ricorda come poco più che una macchiettistica pochade, in cui di nudità se ne vede ben poca e il tono è quello scanzonato della goliardia da bar: superdotati e ipodotati, trapianti di peni equini, dame perennemente insoddisfatte finché non si presenta il nerboruto manovale del caso (la memorabile sequenza del bagno nella tinozza di Tsui Kam-kong e della maggiorata Amy Yip). Ingredienti e confezione dozzinale, ma sufficienti per un successo senza precedenti, che darà vita a un elenco sterminato di sequel, cloni e variazioni sul tema tipico del delirio produttivo da Hong Kong coloniale, ossia pre-1997. In particolare sul fronte dell'erotico in costume, rigoglioso sottogenere che ha generato strani miscugli tra il piccante Sex and Zen e le atmosfere del capolavoro di Ching Siu-tung – romantico e sensuale, ma non esplicitamente erotico - Storia di fantasmi cinesi: i vari Erotic Ghost Story e sequel annessi, Chinese Torture Chamber Story, Ancient Chinese Whorehouse o Slave of the Sword spesso nascondono meno di quanto promette il titolo allusivo, ma restano capisaldi di un'era che non tornerà più.
Di Sex & Zen non mancano i sequel a filiazione diretta, escursioni exploitation di dubbio gusto: il secondo episodio, affidato a Chin Man-kei, in cui il trapianto di pene non si serve del regno animale, ma si traduce in un membro meccanico degno di Tetsuo, si avvale della presenza magnetica di Loletta Lee e di una giovanissima Shu Qi nei panni di Mirage Woman, sorta di strega-mantide a caccia di un prezioso manoscritto. Tanta comicità leggera per l'episodio forse più godibile della trilogia, mentre Sex and Zen III di Aman Chang non fa che rimestare i consueti elementi, calcando la mano su scurrilità e scabrosità. Un mercato, quello di allora, sull'orlo del collasso per eccesso d'offerta che, oggi - dopo essere nel frattempo abbondantemente collassato - ripropone in uno scenario completamente nuovo una formula quasi rozza nella sua semplicità; e vince nuovamente, come se in venti anni esatti poco o nulla fosse cambiato nei gusti del pubblico. Riprendendo vari elementi della trilogia originaria – dal primo la trama principale e la scena della tinozza, dal secondo lo sciamano ermafrodita con aspetto di donna bellissima ma doti sessuali da ultradotato, dal terzo l'elemento sadomasochistico - il Sex and Zen 3D indulge non poco in sadismo e gusto scabroso per la tortura, con una strizzata d'occhio più a registi famigerati come Billy Tang e Bosco Lam che al soft-core di Michael Mak. Tutto funzionale alla perpendicolarità schermo-spettatore dell'effetto 3D, esaltato sì dai seni prorompenti o da un pene asinino scagliato verso il pubblico, ma ancor più a suo agio in scene gore, che comportano un altro genere di penetrazione (o di pene-trazione, qui altrettanto sfruttata). Lo spirito è quello del revival di un genere che non esiste più, quel Categoria III che gettava il sasso ma tirava indietro la mano, esempio di una breve stagione felice del cinema exploitation come da noi, per certi versi, la commedia scollacciata decamerotica, benché adattato alle nuove esigenze in termini di look. A farla da padrone sono ancora le pornostar nipponiche, più disinibite delle colleghe cinesi, come da tradizione. L’epopea del Categoria III è destinata a tornare, fomentata dal desiderio di proibito del pubblico mainlander (come gli hongkonghesi chiamano ironicamente i cinesi continentali)? Difficile dirlo, ma, conoscendo i meccanismi produttivi cinesi, meglio prepararsi a un’ondata incontrollabile di pruriginose tridimensionalità.

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