Dino Risi è un attore italiano, regista, scrittore, sceneggiatore, co-sceneggiatore, assistente alla regia, è nato il 23 dicembre 1916 a Milano (Italia) ed è morto il 7 giugno 2008 all'età di 91 anni a Roma (Italia).
Inizia la sua gavetta cinematografica come assistente di Mario Soldati per Piccolo mondo antico nel 1940 e poi come aiuto di Lattuada in Giacomo l'idealista nel 1942. In quegli anni collabora anche alle sceneggiature dei film Anna di Lattuada (1952), Totò e i re di Roma (1951) di Steno e Monicelli e Gli eroi della domenica di Camerini (1952). Dopo una serie di cortometraggi (il più famoso è Buio in sala) si trasferisce a Roma nel 1952 e realizza il suo primo lungometraggio di finzione: Vacanze col gangster. Nel 1953 realizza Paradiso per tre ore, episodio del film Amore in città (gli altri episodi sono firmati da Antonioni, Fellini e Lattuada), cimentandosi per la prima volta in un genere di cui diventerà specialista per tutto il decennio successivo. La commedia di costume venata di sottile amarezza comincia a delinearsi nel 1955 con Il segno di Venere. Dello stesso anno è anche la realizzazione di Pane, amore e..., terzo capitolo della saga iniziata da Comencini, nel quale recita una meravigliosa Loren e che ottiene un grandissimo successo. Il 1956 è l'anno della svolta decisiva di Risi: con la realizzazione di un film da lui scritto e diretto apre la strada ad un nuovo genere capace di trasformare il neorealismo in commedia all'italiana. Il suo Poveri ma belli racconta le vicende di un gruppo di giovani romani piccolo borghesi alle prese con le prime storie d'amore. Per questo film Risi scopre dei giovani attori sconosciuti come Renato Salvatori, Maurizio Arena e Marisa Allasio. La formula fu replicata nei due seguiti Belle ma povere (1957) e Poveri milionari (1959). Il passaggio dal film "leggero" alla satira avviene con Il vedovo (1959), storia dei tentativi di un piccolo industriale (Alberto Sordi) che per fare fronte ai debiti tenta di uccidere la moglie per intascarne l'eredità. Il sodalizio con Sordi trova la sua migliore espressione con il film Una vita difficile (1961). Negli anni seguenti sotto la sua regia nasce la coppia Gassman-Tognazzi impegnati in una serie di film mirati via via a smascherare i luoghi comuni del popolo italiano (I mostri, In nome del popolo italiano). La collaborazione con Gassman è stata sicuramente la più duratura nella carriera di Risi, con ben quindici film in comune. Da Il mattatore del 1960, a Il sorpasso (1963), da il successo sempre dello stesso anno, a Il tigre (1967), da Il profeta (1968) fino a Profumo di donna (1974), film che ottiene due nomination all'Oscar. Gli ultimi film girati con Gassman sono I nuovi mostri (1977), Caro papà (1979) e Tolgo il disturbo (1990). Negli anni Sessanta Risi si specializza nei film a episodi , dirigendo i più grandi attori italiani (Manfredi, Vitti) e raccontando sempre piccole storie della vita italiana. Nel 1970 realizza La moglie del prete interpretato da Sophia Loren e Marcello Mastroianni e nel 1973 Sessomatto con Giancarlo Giannini e Laura Antonelli. Il cinema ed il fascismo sono i temi centrali di Telefoni bianchi(1975). L'anno successivo realizza un thriller psicologico Anima persa, tratto da un romanzo di Gianni Arpino e nel 1977 La stanza del vescovo da un libro di Piero Chiara. Del 1978 è il film Primo amore con Ugo Tognazzi, storia di un amore irraggiungibile. Nel 1993 il Festival di Cannes gli dedica una retrospettiva delle sue quindici opere più significative.
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Dopo un esperimento di film a basso costo, Poveri ma belli, raccontato per altro con innegabile disinvoltura, Dino Risi si raccomandò all'attenzione della critica per Il vedovo, un film in cui gli riuscì di fondere con un certo vigore l'umorismo nero anglosassone ai temi più scopertamente farseschi della commedia italiana. Incominciò però a farsi considerare con più attento rispetto dopo Una vita difficile che, tracciandoci il ritratto psicologico di un italiano a cavallo tra guerra e dopoguerra, arrivava a precisarci tutti i termini polemici della nostra epoca con deciso rilievo, mostrandosi scarsamente incline a trasformare le occasioni comiche che il racconto gli proponeva in facile motivo di riso, ma riconducendole sempre a un loro preciso significato narrativo.
La sua opera, però, fino ad oggi più significativa e importante rimane il recentissimo Sorpasso che, mettendo l'accento su un carattere tipico dei nostri giorni, il millantatore troppo sicuro di sè ma in realtà intimamente fallito, affronta temi e problemi del costume italiano con colorita vivacità, alternando la farsa alla satira, la caricatura alla polemica, con un racconto sapientemente costruito e limpidamente condotto a soluzione senza mai un solo cedimento di ritmo: in un'atmosfera di gaiezza e di spensieratezza, acutamente conclusa con una nota amarissima e dolorosa.
Ne I mostri, invece, il tentativo di disegnare a colori vivaci la galleria dei personaggi più o meno aberranti del nostro tempo, non gli è riuscito che in modo superficiale, perché i tipi scelti sono piuttosto approssimativi, taluni non vanno più in là della barzelletta, altri si fermano alle soglie del bozzettismo e tutti, in genere, sono costruiti con scarso senso della misura, in vista di facili effetti caricaturali; ad eccezione dell'ultimo ritratto, quello di un pugile in ritiro, che ha una sua genuina interiorità drammatica, una patetica risonanza e, a tratti, una dignità figurativa decisamente esemplare.
i difetti opposti, ma con risultati identici si ritrovano nel Giovedì, il film più recente di Risi, cronachetta di una giornata fuor dal comune che vede un padre, separato dalla moglie, incontrare dopo cinque anni, un figlio di otto anni che ormai gli è completamente estraneo. Percorso da sincere notazioni umane, da stati d'animo delicati, il film, però, non approfondisce mai il contrasto fra i due personaggi e si limita a fragili esemplificazioni di stati d'animo abbastanza scontati: pur raggiungendo qua e là, specie nell'analisi del carattere del bimbo, una certa intensità emotiva.
Da Cinema italiano 1952-1965, oggi, Carlo Bestetti Edizioni d’Arte, Roma 1966
Il ricordo del grande regista scomparso all'età di 91 anni. Era il padre della "commedia all'italiana". Nel suo appartamento teneva una grande foto di Alida Valli, antico amore. Diceva a Monicelli: "Non ti offenderò, morirò io per primo".
Per star vicino a Dino Risi, occorreva stargli lontano. Solitario che soffriva di solitudine, esigeva da me affetto, salvo stupirsene. Dopo decenni trascorsi fra gente che recita sempre, Risi era sospettoso, fino a chiedermi brusco: «Ma che cosa ti aspetti?». Temeva che avessi una sceneggiatura nel cassetto. Toltosi il dubbio che non ne avevo, Risi finì col gradire senza interrogativi che ascoltassi le sue descrizioni al vetriolo. E ne proponessi di mie.
Milanese di Roma, Risi gradiva da me, più giovane genovese di Milano, una devozione da figlio, scandita da regolari, ma distanziate telefonate. Solo quelle per il compleanno, il 23 dicembre, e quelle per Natale quasi coincidevano. E comunque, più che di amici, avrebbe gradito chiamate di amiche. Intitolò "Vorrei una ragazza" la raccolta di aforismi pubblicata su mia iniziativa dall’amico Gianfranco Monti per l’Asefi. Risi volle una foto di Monica Bellucci in copertina. Lei non raccolse l’implicito invito, ma almeno il libretto tornò ad attirare l’attenzione di stampa su di lui. Pochi mesi dopo gli veniva assegnato il Leone d’oro alla carriera. Collegando eco del libro e premio, mi telefonò. Disse solo: «Grazie». Lo meritavo, come lui aveva meritato il Leone? Comunque sia, questo è uno dei miei ricordi più cari. Nell’occasione della consegna, alla Mostra di Venezia, l’Istituto Luce pubblicò una raccolta di testimonianze su Risi. Mi occupai di quella di Giancarlo Giannini, dopo che Sophia Loren si era sottratta: proprio lei, l’unica, con Agostina Belli, di cui Risi m’avesse sempre parlato bene…
Ma torniamo a Roma. Qui le mie visite avvenivano nel residence, dove Risi s’era trasferito da quando aveva detto alla moglie: «Me ne vado». Sperava d’esser trattenuto? La risposta però non erano state lacrime, ma valigie, già pronte. Alla signorile ma scarna civiltà di Risi, impressa in certi suoi film, cercavo d’adeguarmi. Insieme si pranzava poco e si cenava spesso; ma fu per pranzo che Risi mi cucinò, con le sue mani, un risotto milanese ai Parioli. Di quelli che il suo amico cremonese Ugo Tognazzi, sedicente cuoco, non sapeva fare. Che cosa si raccontano per un decennio un regista fra i maggiori, ma ormai quasi inattivo, e un critico che, per età, aveva potuto recensirlo ben poco? Risi sapeva di non aver un lungo futuro, sebbene dimostrasse sessant’anni quando ne aveva ottanta.
Tramite lui io percorrevo un lungo passato, non con gli occhi di cinefilo, ma di curioso. La gente di spettacolo recita anche e soprattutto davanti ai giornalisti; la tenera rudezza di Risi escludeva questa simulazione. La sua aneddotica svariava dagli anni Trenta in poi ed era centrata sempre su un episodio significativo, descrivendo icasticamente persone e momenti, che fosse il suo apprendistato da psichiatra all’ospedale di Voghera o l’amore con Alida Valli sul set di Piccolo mondo antico, con connessa, folle gelosia di Mario Soldati per l’apprendista psichiatra che aveva assunto come assistente alla regia.
Il tempo avrebbe ingigantito per Risi quel ricordo sentimentale: era di Alida, l'Alida d’allora, l’unica foto in una cornice maestosa del suo sobrio appartamento, che a tutto somigliava tranne che un mausoleo. Rivedere i propri film piaceva all’Alberto Sordi in età, non a Risi. Lui era contento solo che le Tv li trasmettessero. «Per i diritti d’autore», mi spiegava. Preferiva sembrar venale che vanitoso. Una delle ultime volte che ci siamo visti, mi aveva regalato dei libri, nel nostro continuo scambio. Stavolta però i suoi non erano saggi sul cinema che lo lasciavano indifferente: erano romanzi e me li diede con una certa solennità, prendendoli dalle pile che aveva sul tavolino davanti al divano. «Questi - spiegò -me li aveva regalati Vittorio. Ormai non mi servono più». Da allora tengo sempre vicino, quando scrivo, Il castello dei rifugiati di Céline. Prima edizione.
Da Il Giornale, 7 giugno 2008
Galeotto fu Buio in sala, corto del '48 su un povero rappresentante di commercio, grigio e depresso, che entra in un cinema, si ricrea con un bel film ed “esce a testa alta”. Costato 200 mila lire, Carlo Ponti lo acquistò per 2 milioni (ai tempi era obbligatorio proiettare corti in testa ai film), tanto da convincere un 32enne milanese (classe 1916) a lasciare la sua professione di psichiatra – aveva lavorato per sei mesi al manicomio di Voghera – per dedicarsi definitivamente al cinema.
Era conquistato alla causa del nostro cinema Dino Risi, uno dei padri della “commedia all'italiana” con titoli epocali, dal Sorpasso a Poveri ma belli, Pane, amore e , I mostri, Profumo di donna, scomparso sabato a 91 anni nel residence romano in cui viveva da solo da molti anni. Una scelta precisa, di indipendenza e velata di leggera amarezza, come aveva spiegato più volte, perché considerava la vecchiaia una brutta bestia, “orrenda”.
Presto orfano – il padre era stato medico alla Scala, la madre appassionata d'arte, lui era cresciuto girovagando tra gli zii – Dino Risi aveva lavorato come assistente di Mario Soldati e Alberto Lattuada e come sceneggiatore. Ai tempi in cui Ponti e De Laurentis erano soci, Anna Magnani gli chiese di scriverle un ruolo da suora in un ospedale (sapeva della sia laurea) ma alla fine De Laurentis decise di dare il ruolo alla sua donna, Silvana Mangano. Anna di Lattuada nel '51 fu un successo clamoroso, tanto da dare al Risi sceneggiatore la possibilità, dopo tanti corti, di provare dietro alla macchina da presa: Vacanze col gangster, con un giovanissimo Terence Hill, è il suo debutto.
Insieme a Mario Monicelli, Luigi Comencini, Nanny Loy, Ettore Scola si mette quindi a raccontare con il sarcasmo, i guizzi, le intuizioni, la caparbietà di un giovane autore in una nazione carica, in grande trasformazione, l'Italia del boom economico, i freschi ricchi e i soliti poveri, l'ottimismo dei “nuovi italiani” e le pecche di certi caratteri nazionali.
Il suo è stato un cinema divertente ma puntuto, con personaggi tra i più immorali e laidi visti sui nostri schermi. Sintonizzato sugli umori, le sensazioni diffuse degli italiani, ha faticato a farsi riconoscere come autore e forse non gli interessava veramente. Dopo i grossi successi di cassetta delle commedie dei sessanta, la sua cifra comica diventa ancora più cupa, lui vero “cattivo” (insieme a Monicelli, Ferreri e pochi altri), capace di non dare facili gratificazioni allo spettatore, sferzandolo ogni volta che poteva.
Con Vittorio De Sica sul set del film "Un amore a Roma"
Ha lavorato con tutti i più grandi nomi del grande schermo. Era lui a citare con orgoglio i “cinque moschettieri”, cioè Sordi, Mastroianni, Manfredi, Gassman, Tognazzi, che appaiono in numerose pellicole. E poi le donne: ricordava soprattutto il carattere eccezionale di Anna Magnani e le bellissime, alcune imposte dai produttori ma "utili" ai film: Alida Valli, Silvana Mangano, Virna Lisi, Sophia Loren.
Quest'ultima appare nel suo primo grande successo di pubblico, Pane, amore e…, un filone che aveva aperto Comencini con Vittorio De Sica e Gina Lollobrigida e continuato da lui al terzo episodio cambiando la protagonista. Sempre del '55 è Il segno di Venere, un piccolo capolavoro di equilibri scritto con Flaiano, Anton, Zavattini e da Franca Valeri, vera mattatrice della pellicola, uno spaccato dell'Italia avviata al benessere diffuso, al quale le donne soprattutto guardano con fiducia per emanciparsi.
Comprimari di una strepitosa Valeri, signorina milanese bruttina, buona di cuore ma già sarcastica e fulminante, la cugina Sophia Loren (raccomandata da Ponti, come sottolinea Risi) brava ma soprattutto bella da togliere il fiato, disinteressata allo stuolo di uomini che la tormentano. Cederà solo a Raf Vallone.
E poi la zia Tina Pica, che perentoria filosofeggia in napoletano, Vittorio De Sica, truffaldino boheme, Peppino De Filippo, fotografo tormentato da un Alberto Sordi spassosissimo che vuole vendergli un' auto rubata. Impermeabile e occhiali da sole, maniere da strafottente, il grande attore romano si produce in alcune gags memorabili.
Difficile essere esaustivi sulla produzione del regista milanese, che è stata continua e fittissima fino almeno al '90, quando uscì Tolgo il disturbo con il suo attore feticcio Vittorio Gassman. Nel '96 il commiato dal grande schermo con Esercizi di stile e Giovani e belli, remake poco apprezzato del suo cult Poveri ma belli, l'exploit del '56 che lo consacrò definitivamente. Un film giovanile, proletario ma che mostrava le velleità piccolo borghesi sintonizzandosi sul sentire nazionale. E poi, favola nella favola, lancerà i due sconosciuti Marisa Allasco e Maurizio Arena.
Unico premio importante il Leone d'oro alla carriera consegnatogli dalla Mostra di Venezia nel 2002, Risi non era autore con la puzza sotto il naso, era capace di conquistare i critici e il pubblico o spiazzarli con opere tirate via. Eppure percorre tutti i sentieri della comicità, persino nelle sue forme più ciniche e black come ne Il vedovo con Alberto Sordi. Il mattatore romano si cimenterà anche in un ruolo drammatico in Una vita difficile con Lea Massari, uno dei capolavori di Risi.
Era un equilibrista della commedia che castigat ridendo mores, con i suoi limiti – la semplificazione dei caratteri più immediati – e i suoi pregi - il saper evitare la ramanzina morale – e con l'idea fissa del dovere ludico del mezzo cinematografico.
Nel '62 Risi sforna un'altra pietra miliare, Il sorpasso, con un superlativo Vittorio Gassaman, il Bruno Cortona cialtrone ed edonista che si trascina dietro sulla Aurelia decappottabile il timido studentello Trintignant. Una sorta di giro sulle montagne russe, corsa matta e indiavolata sulle strade dell'Italia già ubriaca del proprio benessere con un finale shock, la macchina a picco sulla scogliera.
Il cinema come specchio dei difetti e dei vizi, capace di rifletterci e farci ragionare. Il sodalizio con Ugo Tognazzi lo porta a girare I mostri graffiante film ad episodi nel '63 (e I nuovi mostri nel '77, con registi anche Monicelli e Scola), Straziami, ma di baci saziami tre anni dopo, con un grande Nino Manfredi.
Curioso il filone soft-sexy, puntato sul sesso come ossessione, perversione, oscuro oggetto. Tanti film ad episodi come Vedo nudo (1969) con Nino Manfredi, Sessomatto (1973) con Giancarlo Giannini e Laura Antonelli, e Sesso e volentieri (1982) con Johnny Dorelli, la Antonelli e Gloria Guida.
Ma è altrove, negli anni settanta, che esce fuori ancora il guizzo del grande orchestratore. Come in In nome del popolo italiano (1971), aspra ma non moraleggiante requisitoria contro una società già inginocchiata al profitto con Tognazzi giudice severo e un laido Vittorio Gassman, industrialotto accusato di aver ammazzato una tossica.
Sempre l'attore romano sarà al centro di Profumo di donna (1974), da un romanzo di Giovanni Arpino, premiato a Cannes per l'interpretazione, in cui è un militare diventato cieco che si mostra duro e cinico con un assistente, più di quanto in realtà non sia. Del ' 92 il remake di Martin Brest con Al Pacino.
In una intervista dell'anno scorso, raggiunto nella sua casa rifugio ai Parioli, gli chiesero se si era riconciliato con l'idea dell'età avanzata. Si produsse in una momento tenero, amaro ma anche divertente, come era stato da autore: “La vecchiaia è bella? Secondo me è orrenda. E' bello quando non si ricordano più i nomi dei proprio figli?”. Inizia una lunga lista, scritta su un foglio di carta: ”Guardare una ragazza e non essere visti da lei? E' bello salire le scale e fermarsi al quinto gradino? E' bello parlare e non essere capiti? Cadere e rompersi una gamba? Non riuscire ad allacciarsi le scarpe? Morire in un letto di ospedale? E' bello diventare antipatici (perché i vecchi sono discoli)? Pisciarsi nei pantaloni? Non sentire una donna che ti dice ti amo? Fissare un telefono che non suona?”. In quel momento squilla l'apparecchio proprio vicino a lui, risata generale, lui sopreso ma quasi soddisfatto chiede subito: “Avete ripreso? Questa si che è una bella gag”.
Da L'Unità, 7 giugno 2008
Con Mario Monicelli, Nanni Loy, Ettore Scola, Luigi Comencini, è stato uno dei grandi maestri della commedia all'italiana. E oggi il nostro cinema piange la morte di Dino Risi, che si è spento questa mattina nel residence Aldovrandi della capitale, in cui risiedeva da tempo. Aveva 91 anni. Se ne va così un grande vecchio della settima arte: protagonista di una stagione irripetibile, che vanta - specie negli ultimi anni - numerosi, ma mai del tutto riusciti, tentativi di imitazione. Una formula capace di piacere sia ai critici che al pubblico, con la sua abilità nel coniugare divertimento e affresco sociale.
Insomma, una sorta di Billy Wilder ma made in Italy, come dimostrano i suoi capolavori: dal Sorpasso ai Mostri. Eppure, il milanesissimo Risi - nasce il 23 dicembre 1916, nel capoluogo lombardo - al cinema non ci arriva proprio da ragazzino. Prima, infatti, studia e consegue una laurea in Medicina. I genitori immaginano per lui una carriera in psichiatria, ma il giovane Dino ha altri progetti. E si butta a capofitto nel mondo della celluloide. I primi lavori degni di nota arrivano al servizio di altri registi: ad esempio, come aiuto di Mario Soldati, in Piccolo mondo antico (1940), o di Alberto Lattuada, in Giacomo l'idealista (1943). Nel 1948, il suo debutto dietro la macchina da presa, col cortometraggio I Barboni, ambientato tra i poveri della sua città d'origine.
Il suo primo lungometraggio arriva solo nel 1952, ed è Vacanze col gangster. Ma il vero successo arriva un po' più tardi, con la commedia di costume Il segno di Venere e soprattutto con l'exploit al botteghino di Pane amore e..., con Sophia Loren protagonista. Pellicola che bissa i successi di Pane amore e fantasia e Pane amore e gelosia. Un anno dopo, 1956, nuovo boom: questa volta tocca a Poveri ma belli. Realizzato con mezzi modesti, diventa un campione d'incassi.
E già questi titoli fanno capire come si svilupperà il cinema di Risi: popolare ma mai eccessivamente sentimentale, attento al costume ma senza rivendicazioni ideologiche. Una cifra che resterà anche nelle sue opere successive: il drammatico Una vita difficile, con un inedito Alberto Sordi; il supercult Il sorpasso, per molti una delle vette assolute della commedia all'italiana, col suo attore preferito Vittorio Gassman; e quello che è e resta un altro dei suoi titoli più celebri, I Mostri (1963).
Un'attività intensa, quella di Risi, che dura anche per tutti gli anni Settanta. Decennio in cui realizza, tra gli altri, In nome del popolo italiano (1971), I nuovi Mostri (1977), Caro papà (1979). E anche Profumo di donna, ancora con Gassman, che ottiene due nomination all'Oscar. E che avrà un remake in salsa hollywoodiana un bel po' di anni dopo, con Al Pacino protagonista.
Negli anni Ottanta, invece, assistiamo a una minore produzione cinematografica, malgrado film come Fantasma d'amore (1981) e Sesso e volentieri (1982). Intanto, anche suo figlio Marco si dà alla regia, ma con uno stile più serioso e temi di denuncia: la sua pellicola-exploit è Mery per sempre, del 1989 (mentre proprio in questi giorni sta girando il film sulla morte del giornalista napoletano Giancarlo Siani). Per Risi senior, invece, nei Novanta assistiamo a un ulteriore allentamento dell'attività: tra le poche cose da citare, il tentativo - non riuscito - di far rivivere i fasti di Poveri ma belli con il film Giovani e belli (1996).
Ma la grande stagione della commedia all'italiana è al tramonto, anche per la scomparsa dei suoi volti più celebri: Gassman, Tognazzi, Manfredi, Sordi. E così, a inizio Millennio, Risi si rivolge alla tv e realizza la fiction Bellissime, ispirata a Miss Italia, e girata a Salsomaggiore. Un finale un po' malinconico, per questo grande vecchio della settima arte. A cui però, nel 2002, la Mostra di Venezia assegna il Leone alla carriera. L'ultima onorificenza di prestigio, nel giugno 2004: quando l'allora presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, lo insignisce del titolo di Cavaliere di Gran Croce. E tutto il mondo del cinema lo applaude. Prima dell'ultimo festeggiamento ufficiale: quello per i suoi novant'anni.
Ma lui, uomo arguto e autoironico, certamente non avrebbe voluto toni troppo pomposi o seriosi, a commentare la sua scomparsa. Anche perché sulla vecchiaia, e la morte, ci ha sempre scherzato: "Penso - ha detto una volta - che bisognerebbe andarsene tutti a ottant'anni. Per legge".
Da La Repubblica, 7 giugno 2008
Prende talmente sul serio la vita che non fa altro che sfotterla. Anche adesso che ha il cuore rammendato. Non per via di un amore o di un dolore: «Si era fermato all'improvviso e senza preavviso, come una sveglia scarica. Dopo l'intervento, però, i medici mi hanno detto che è tornato nuovo. Ho dimenticato di chiedere se intendevano che posso fare l'amore, ballare, giocare a tennis, nuotare... ».
Di Dino Risi è stato detto di tutto e di più. Persino lui si è raccontato in I miei mostri (vincitore del Premio Fregene e alla seconda ristampa nel giro di quattro mesi). «Le memorie di un uomo disordinato», dice del libro. Mentre si tratta di frammenti messi apposta in “ordine” sparso, sia cronologicamente che sentimentalmente.
Esattamente come è lui. Un ragazzo di 88 anni che guarda il mondo come fosse un eterno, quotidiano set (immenso no: qualsiasi scena non oltrepassa mai i confini dello sguardo e delle sensazioni). E lo fa con il distacco proprio dei registi. Tuffandocisi dentro, proprio come i registi. Dei suoi film, quello che gli piace di più è Una vita difficile, «ma è il grande successo della mia carriera è Il sorpasso. Forse perché è il film dell'automobile nel Paese dell'automobile, negli anni dell'automobile. Pur di comprarne una gli italiani avrebbero venduto l'anima e, in attesa di qualche acquirente, firmavano chili di cambiali. E poi anche perché è un film sull'amicizia tra il rappresentante dei cialtroni e quello delle persone perbene. In quale rientro io? In quello della Legione straniera. In fondo sono un milanese che vive a Roma. Un medico che fa il regista, un quasi psichiatra che ha abbondanto la disperazione dei manicomi per un manicomio con riflettori, attori e belle donne».
La criniera bianca, la erre francese, la lingua tagliente, la voce sgranata alla Gualtiero De Angelis, il doppiatore di Cary Grant, «se avessi potuto scegliere, di Cary Grant, avrei voluto il fisico e il fascino. La voce? Pazienza». Borbotta di essere un uomo sul viale del tramonto, «forse anche della sera». Ma continua a corteggiare le belle donne, «che sia un tic nervoso? Comunque con quelle brutte non mi viene».
Ed è sempre distrattamente elegante, come chi sa di essere chic anche con uno straccio addosso ma non ci bada. La sua casa è: una libreria, una scrivania ingombra, una macchina da scrivere Olivetti che fa un frastuono del diavolo e una cucina in miniatura dove d'inverno prepara un risotto allo zafferano per due, evento che per lui significa una grande dimostrazione d'amore. Ci doveva rimanere una settimana nel residence in via Aldrovandi, «ma ci sto da 30 anni e oltre. Mi ci rifugiai quando mi separai da mia moglie. No, nessun dramma. Io le dissi: vado. Lei mi rispose: “ti aiuto a fare le valigie”».
La sua finestra preferita affaccia sullo zoo («ora si chiama bioparco: forse l'hanno ribattezzato per alzare il prezzo del biglietto»), e dà sulla gabbia di un'aquila reale «stretta in due metri per due che mi ricorda Vittorio Gassman, l'amico di sempre. Un grande con manie di grandezza, che si sfiniva sbattendo le ali in un mondo che gli stava troppo stretto». Al cinema ha graffiato, commosso divertito. Ma, dice, il cinema non gli manca. «No, ogni tanto ci vado, anche se non ne vale la pena», sorride beffardo e: «Anni fa non mi piaceva l'idea di andare in pensione, non mi sembrava ancora il momento. Ma adesso mi beo di non dovermi alzare all'alba, di non avere rotture di scatole, di fare quello che mi pare e piace, di non avere attori fra i piedi. Oddio, ci sarebbero quelle due ore morte, tra le 14 e le 16, ma le frego dormendo».
Rimpianti? «Rimorsi». Lo ha scritto anche nel libro: più dei successi sono i rimorsi. Forse per quella mania (smania?) di contraddizione che lo contraddistingue. E che lo ha portato a sposarsi con l'entusiasmo di chi crede nell'amore assoluto e fa di tutto per provare il contrario. Gli piace passare per cinico. Ma quasi mai racconta dell'estate del 1925. Quando lui è in vacanza da certi zii a Savona. Ha 8 anni. Una mattina conosce Milena, «una bambina bionda con un costumino bianco e blu. Le giuro amore eterno, lei mi schiocca fragorosi baci sulle guance e mi regala la sua bambola», ricorda il più graffiante autore della commedia all'italiana. Ma omette di dire che quella bambola, ce l'ha ancora. Quel bambino innamorato di Milena è lo stesso che è sopravvissuto alla guerra per non «perdersi il dopoguerra».
Il fan di Chaplin e di Guerra e Pace, lo studente che frequentava case d'amici e case chiuse, l'umorista del “Bertoldo”, il ragazzo che si accorge di essere innamorato quando in un bar squilla il telefono e lui subito grida “è per me!”, l'uomo che ammette di aver fatto l'amore solo con le donne che ha amato di meno, il padre che si rimprovera di aver fatto poco il padre, così, tanto per collezionare uno di quei rimorsi che gli sono tanto cari.
E' quel regista, Dino Risi, che ha scomodato persino Billy Wilder che alla stampa dichiarava: «Bravissimo, il suo stile assomiglia al mio». Mentre William Wyler, lo scomodò (tradotto: lo fece andare in bestia) davvero: «Eravamo a colazione, prima della consegna degli Oscar: c'erano Capra, Mamulian, Vidor, Cukor, Wise. Un Olimpo. Io conoscevo i loro film, non le loro facce e scambiai Wyler per Wilder. Il brutto è che lui, imperturbabile, mi fece chiacchierare un'ora prima di dirmelo». Il cinema, Dino Risi: «Diciamo piuttosto che ho vissuto quando il cinema c'era: Ante Tv. Adesso siamo nell'era Dopo Tv. Ma, giuro, sono innocente...».
Alla fine anche Dino Risi ci ha lasciato. Con grande eleganza. Come sempre. «La morte quasi sempre arriva nel momento sbagliato», sosteneva. Da tempo si era fatto una serie di film sulla sua morte. «In verità pensavo di morire nel 2000», mi disse due anni fa per festeggiare i 90 anni. Aveva anche detto che gli sarebbe piaciuto morire a Waterloo solo per veder scritto sulla sua lapide «Dino Risi, nato a Milano, morto a Waterloo». Avrebbe fatto un certo effetto.
C'era pure stato a Waterloo, assieme al suo sceneggiatore e amico Bernardino Zapponi, in Belgio. «Era un posto bruttissimo». La sua vera Waterloo fu la scomparsa di tutti gli amici in questi ultimi anni. Ugo Tognazzi, Marcello Mastroianni, Bernardino Zapponi e Vittorio Gassman, che per lui era come un fratello. «Sogno spesso Vittorio Gassman. Spesso. La cosa strana è che è antipatico come era quando lo incontraii i primi anni. Poi fra noi ci fu una grande amicizia». È con Gassman che Risi dividerà il successo di I mostri, Il sorpasso, Il tigre, Profumo di donna. Già vederlo malato gli aveva creato una depressione. Fecero non molti anni fa uno spot per una banca toscana. Gassman, uno che riusciva a memorizzare qualsiasi testo in pochi minuti, aveva bisogno del gobbo. Non riusciva a fermare le parole. La morte di Gassman gettò Risi in uno sconforto profondo. Come se fosse finito tutto un periodo del loro cinema. Poi, in qualche modo, si riprese. Raccontando, parlando, scrivendo, ricordando. Dino Risi, al cinema come nella vita, raccontava storie incredibili. Vere. False.Spesso mettendo un personaggio al posto di un altro. Confondendo i morti e i vivi, i giovani e i vecchi come se facessero parte di un unico flusso di umanità. Giocando sulle debolezze dei suoi personaggi con continuo divertimento. Non era cinico come di solito si dice. Il cinismo di Risi era uno sguardo attento e umano sul mondo. Nessuno ha capito e dipinto i difetti e i caratteri degli italiani come lui. Grazie anche ai suoi attori meravigliosi, dal Gassman del Sorpasso al Sordi di Una vita difficile, ai suoi sceneggiatori, come Age e Scarpelli, Maccari e Scola o più tardi Zapponi.
Rivisti oggi i suoi film ci raccontano dell'Italia molto di più di quanto potessimo pensare allora. Con questa precisione da chirurgo nel definire, tagliare, descrivere in poche battute, poche inquadrature quello che vuole raccontare. Per questo un film come I mostri è un autentico capolavoro di scrittura, struttura, analisi all'interno di una maglia complessa come quella del film a episodi. A Risi basta mezz'ora e un grande Vittorio Gassman per spiegarci la morte cialtrona e inutile di Osvaldo Valenti in Telefoni bianchi prima di Sanguepazzo. In un altro tardo film, In nome del popolo italiano, anticipa il rapporto tra magistrati e poteri forti, parlando già di rifiuti tossici come in Gomorra. I suoi onorevoli sparsi nella cosiddetta commedia all'italiana, precedono quelli de Il divo, mentre Una vita difficile ci mette di fronte al vero grande problema degli italiani dal dopoguerra a oggi, cioè il vendersi in continuazione ai potenti di turno.
Personalmente Risi metteva tra i preferiti anche certi piccoli film che non ebbero grande successo. Come Un amore a Roma con Mylène Demongeot, (Non lo rivedo da allora, ma è uno dei miei preferiti), o Il giovedì con Walter Chiari, o L'ombrellone con Enrico Maria Salerno e Sandra Milo. «In genere io li facevo bene i film, anche quando non mi importava niente del film che stavo facendo. I migliori, comunque, rimangono Una vita difficile, I mostri, Il sorpasso e anche Profumo di donna, che è stato quello che ha avuto più successo di tutti». Ma possiamo mettere tra i suoi capolavori anche Il segno di Venere e Il vedovo costruiti sulla coppia Alberto Sordi e Franca Valeri, per non parlare dello scatenatissimo Venezia la luna e tu con Sordi e Manfredi gondolieri.
Non amava granché i suoi film a episodi legati al sesso, come Vedo nudo o Sesso matto, ma c'è un episodio con Manfredi e Virna Lisi in Le bambole che è un piccolo capolavoro. Anche se ha più volte detto di aver girato dei film per soldi o per le grazie di una donna, Risi ha sempre avuto un controllo totale della messa in scena. Anche perché aveva un controllo totale degli attori e del copione, che faceva riscrivere fino alla perfezione. Non c'è una battuta o un caratterista che non funzioni in un suo film. Condivideva con Mario Monicelli un sano rancore per la critica italiana che non lo aveva capito negli anni '50 e '60 e che si era assopito, ma non troppo, solo negli ultimi anni.
«Quando muore un attore o un regista tutti ne parlano, quando muore un critico, no». Per civetteria diceva di odiare i festival, come Venezia («Pessimo posto, pieno di critici e di zanzare»), salvo poi andarci per il Leone alla carriera. Ha sempre rispettato Fellini, col quale condivideva il fido Zapponi. Ma non amava affatto né un certo cinema italiano di sinistra (forse perché troppo coccolato dalla critica) né la sinistra in generale. «Oggi sono tutti di sinistra, anche quelli che erano tiepidi comunisti. Il comunismo in Italia non ha mai avuto forza come da quando non c'è più. Anche perché c'è quell'altro...». Quell'altro, come lo chiamava, lo aveva già preso in giro in tempi non sospetti in La stanza del vescovo, facendo chiamare Berlusconi un personaggio di marito cornuto, tronfio e impotente («Sarà per questo che il film, che è di Mediaset, passa solo a tarda notte sulle loro reti»). «Berlusconi ha capito gli italiani come pochi, - sosteneva - Ha capito che gli italiani alla fine sono dei fregnacciari. Sa cosa vogliono. Il denaro, ad esempio. Oggi è la cosa più importante di tutte. E mai come oggi. Quando hai il denaro compri i tuoi desideri. E i desideri sono tanti, sempre nuovi».
Una volta lo aveva incontrato. «E gli ho anche dato diecimila lire. Eravamo stati invitati a una cena. Eravamo una decina di persone di cinema. Alla fine della cena Confalonieri si è messo al pianoforte e Berlusconi ha cantanto La vie en rose. Allora io ho tirato fuori un biglietto da diecimila lire e gli ho detto: 'Per l'orchestra'. Lui ha diviso il biglietto in due e ne ha dato metà a Confalonieri». Ma alla fine, cosa pensava di Berlusconi? «È un po' stupido. Ma bisogna essere un po' stupidi per avere successo e piacere al pubblico».
Da Il Manifesto, 8 giugno 2008
Perché un medico, figlio di medici, un futuro psichiatra decide di mettersi a fare il cinema? «Tanto, diceva Dino Risi, nessuno guarisce». Con lo stesso senso di distacco ha vissuto e realizzato i suoi film, che avevano uno straordinario successo, specchio irridente di una società che si trasformava, e lui non mancava di sottolineare la miseria culturale, la pochezza, l'ineleganza del popolino. La cattiveria con cui colpisce via via il popolo, il piccolo borghese e poi gli arrampicatori e gli arricchiti è diventata emblematica, un tratto del suo carattere. Ognuno dei titoli della sua lunga filmografia desta esclamazioni di meraviglia, perfetti esempi di commedia all'italiana. Nato a Milano nel 1916, è morto a Roma a 91 anni, dopo aver vissuto negli ultimi trenta in albergo. Non parte in guerra come gli allievi ufficiali del suo corso perché si ammala gravemente, si rifugia in Svizzera e segue alcune lezioni di Jacques Feyder, collabora poi con Mario Soldati e Alberto Lattuada, diventa critico cinematografico, gira numerosi documentari e cortometraggi tra cui Barboni ('48) documentario sulla disoccupazione a Milano e Buio in sala venduto a Ponti per due milioni, fatto che lo porta a trasferirsi a Roma. Nel '51 anno firma il primo lungometraggio In vacanza con il gangster. Tra i suoi primi film Il segno di Venere ('55), scritto da Franca Valeri, segna il passaggio da Milano a Roma. Il successo arriva con Pane, amore e...dello stesso anno, che continua la serie firmata da Comencini e nel '59 avviene il folgorante incontro con Gassman (Il mattatore). Continua la commedia con Poveri ma belli, Belle ma povere e Poveri milionari e un minore ma folgorante Venezia la luna e tu dove incredibili gondolieri sono Sordi e Nino Manfredi che riportano in realtà la Venezia del cinema di Salò non ancora dimenticato su un terreno più accettabile. A ognuno dei nostri «mostri sacri» Risi ha dedicato indelebilmente un film o più: così è per Vittorio Gassman (Il sorpasso), Manfredi protagonista di Operazione San Gennaro ('66) e Straziami ma di baci saziami ('68), Walter Chiari e Il giovedì, Alberto Sordi e Il vedovo ma anche il drammatico Una vita difficile, Ugo Tognazzi e I mostri, Mastroianni e Loren in La moglie del prete. Con lui hanno lavorato anche Coluche (Dagobert), Pozzetto (Io sono fotogenico), Beppe Grillo (Scemo di guerra), Monica Vitti (Teresa). Nel 2002 il festival di Cannes gli ha reso omaggio con una retrospettiva dei suoi film e la mostra di Venezia lo ha premiato con il Leone d'oro alla carriera. Nel 2004 ha pubblicato I miei mostri (Mondadori), autobiografia ironica e amarissima, intelligente e appassionata. Domani mattina, alla Casa del cinema, una cerimonia laica ricorderà il regista.
Da Il Manifesto, 8 giugno 2008
Se ci sta vedendo da qualche parte dell'universo, starà sicuramente sghignazzando di fronte alla valanga di elogi e ricordi sublimi che nessuno di noi potrà fare a meno di snocciolare nel ricordarlo. Perché Dino Risi era un finto cinico che di fronte alle celebrazioni sperava sempre che «fra tanti esaltatori qualcuno parli male di me. Altrimenti ci penserò io, tanto sono abituato». Dall'altra, caro Risi, almeno adesso senza ribattere dovrai accettare il titolo di maestro («per caso», come aggiungevi sempre) del miglior cinema italiano, quello della sua commedia datata anni Sessanta dove alla capacità di osservare il reale si aggiungeva sempre una certa lungimiranza, una incredibile arguzia e una inesauribile fantasia. Tu le avevi tutte in abbondanza.
Risi nasce puro milanese nel 1917 e da ragazzo vuol fare il medico, anzi, lo psichiatra. Ma alla vigilia della guerra incontra un gruppo di coetanei (Lattuada, Soldati) che lo trascinano da un'altra parte, verso quell'arte allora così vitale del cinema. Inizia ad occuparsene dal versante della critica, poi si avvicina al set con Piccolo Mondo antico di Soldati, quindi - finita la guerra - segue un corso in Svizzera di regia con Feyder.
Tornato a Milano, Risi abbandona definitivamente l'aspirazione medica e inizia a girare documentari. Già dai quei primi lavori, tra il 1946 e il '49, si capisce che il suo modo di guardare la realtà non è tipicamente "neorealista", non nasce da un fuoco sacro ma piuttosto dalla curiosità e dall'acume nell'osservazione umana. Uno sguardo sempre obliquo, il suo, che lo tiene volutamente fuori dall'autorialità tradizionalmente intesa, per farne piuttosto un artigiano inusualmente acuto.
Con queste premesse, il successo non tarda a venire. Scoppia con Pane, amore e... (1955) sequel dei precedenti episodi comenciniani, con al centro sempre il maresciallo Carotenuto (De Sica) e il cambio di innamorata, dalla Lollo a Sophia. La sua firma però si fa indelebile sul successivo Poveri ma belli (1956) dove nelle storie di amorazzi tra bulletti romani e pupe da spiaggia si concentra l'occhio poliedrico di Risi. Sì, l'Italia del dopoguerra e della fine della fame, della voglia di spensieratezza, ma anche della grevità del popolo romano accanto ai monumenti della sua immortalità, lo stupore delle giovani generazioni di fronte a quello che sta per avvenire, la voglia tanto italica di frivola spensieratezza. Tutti temi che torneranno, più folli e disperati ne Il sorpasso (1962), punto più alto del cinema di Risi. Perché l'avventura mortale dei due vitelloni non racconta solo dell'euforia del boom, ma anche di ciò che avverrà anni dopo, della centralità di una generazione, dei rischi che l'aspetta alle porte e, con Gassman, iniziano a profilarsi le maschere dei mostri, attraverso i quali Risi saprà cosi bene sintetizzare vizi e virtù della nostra gente.
Il sorpasso è anche il film in cui Risi dichiara la sua avversione per certa cinefilia intellettualistica (la battuta la mette in bocca a Gassman: «L'hai visto l' Eclisse ? Io ci ho dormito sopra, una bella pennichella. Bel regista Antonioni, c'ha una Flaminia Zagato») e quello in cui la sua "commedia" si tinge più cupamente di quelle tinte amare e distruttive che faranno la cifra del suo cinema. E' anche uno dei film più immortali e celebrati dalla cinematografia internazionale, quello da cui prendono mosse cineasti come Martin Scorsese o film come Easy Rider , titolo (quello di Risi) che il Moma di New York ha archiviato tra i capolavori europei dello scorso secolo.
Mentre con Gassman, Risi si allena a costruire la sua galleria di mostri, con Alberto Sordi, in Una vita difficile (1961) inizia la resa dei conti con l'italiano medio e la sua arte d'arrangiarsi, tragica e ridicola voglia di sopravvivenza ad ogni costo. Un filone legato a Sordi, che in parte ritroviamo a buoni livelli nel successivo In nome del popolo italiano o in Mordi e fuggi (1972-73), mentre Gassman e Tognazzi affilano le facce e i guizzi per i 20 episodi de I mostri , tra cui spiccano per immortale doppiezza i titoli "Che vitaccia!" e "La nobile arte!".
Alle altezze di questa galleria di quotidiani orrori, così come all'asprezza del primo road-movie della storia del cinema italiano Risi non arriverà più, se non a sprazzi. Della sua produzione dei fine 70-80 non c'è molto da ricordare (senz'altro Profumo di donna del '74 e forse Tolgo il disturbo , del '90) e qualcosa anche da dimenticare (il brutto rifacimento di Poveri ma belli del '95). Ma la discesa finale non toglie nulla agli apici raggiunti.
Un capitolo a parte meriterebbe il filone risiano che Aristarco ribbattezzò con un certo disprezzo del "neoerotismo", tema caro - quello del gioco sessuale - a Risi e che i detrattori hanno visto come pura operazione commerciale, nonché pruriginosa. E' vero che Vedo nudo , Sesso matto e Sesso e volentieri ebbero buoni successi di botteghino in Italia e in Francia, ma è anche vero che dimostrano la capacità di Risi, in tempi di duri e puri, di uscire fuori dal coro e giocare con le ambiguità sessuali e i pregiudizi di casa nostra.
Dino Risi per il cinema italiano rimane lì, sulla cima di quello sguardo attraverso cui ha fatto da specchio a un intero paese e i cui tratti principali sono ancora impressi a fuoco dentro quella cornice impolverata. Non è un caso che, acciaccato e ormai fuori dal "giro" già da diversi anni (tardissimo gli è arrivato quel Leone alla carriera del 2002) Risi si tenesse comunque nel cassetto l'idea di una nuova serie di "mostri" (la terza, dopo I nuovi mostri , girato con Scola e Monicelli), in cui infilare Bossi e Berlusconi: «quelli sono veri, di mostri - li chiamava - non come i miei che erano quotidiani, piccoli, mostriciattoli in confronto».
Da Liberazione, 8 giugno 2008
Quasi tutte le sue attrici se ne innamoravano: Dino Risi, che se n'è andato a 91 anni, era bello (alto, elegante, bei lineamenti, bella bocca, bei ricci ora bianchi) e metteva in soggezione. Era serio, un po' esotico (milanese), figlio del medico della Scala, a sua volta medico specializzato in Psichiatria (quindi con l'atteggiamento sarcastico e protettivo di chi capisce tutto).
Colto, amico del mondo intellettuale e artistico antifascista. Assistente di Alberto Lattuada e di Mario Soldati, innamorato di Alida Valli con disperazione di Soldati che adorava l'attrice di Piccolo mondo antico, fuggito da Milano per non fare il soldato coi fascisti, arrivato in Svizzera dove aveva incontrato una ragazza svizzero-tedesca, futura moglie e madre dei suoi figli Claudio e Marco, registi pure loro. Tutte o quasi se ne innamoravano, nonostante i suoi modi spicci, a volte aspri, comunque poco teneri: persino quando alla Mostra di Venezia nel 2002 gli dettero il Leone d'Oro alla carriera, qualcuno lo sentì borbottare: «Ma vaffa...».
Il premio, in realtà graditissimo, non lo compensava di decenni di frustrazione: per così tanto tempo la critica lo aveva considerato un commediante, un comico direttore di comici, che era troppo tardi quando la moda revisionista cominciò a considerarlo un sommo artista. Non lo era, non è il caso di parlare di genio o di talento: ma era un bravo regista che aveva avuto il vantaggio di lavorare in quegli Anni Sessanta in cui gli sceneggiatori erano intelligenti e ironici (Age e Scarpelli, Rodolfo Sonego, Scola e Maccari), gli attori erano bravi e grandi (Ugo Tognazzi, Alberto Sordi, Vittorio Gassman), il cinema italiano aveva una struttura industriale, l'Italia era ribelle e furiosa. Su una cinquantina di film diretti da Risi, almeno cinque sono veri capolavori. Poveri ma belli, 1956, ebbe un enorme successo: segnava il passaggio dal neorealismo postbellico al perbenismo ridanciano che altri non avevano còlto, era interpretato da cinque ragazzi (Marisa Allasio, Lorella De Luca, Alessandra Panaro, Maurizio Arena, Renato Salvatori) mai visti prima al cinema, era tutto un litigio, piacque moltissimo. Una vita difficile con Sordi, '61, scritto da Sonego, era bellissimo: satira tagliente del boom e quadro d'ambiente, involuzione triste d'un italiano esemplare, prima partigiano, poi giornalista a Roma in un quotidiano di sinistra, poi ufficio stampa-tuttofare d'un pessimo industriale. Finale epico: a una festa il padrone umilia e bistratta Sordi, lui con un ceffone lo getta nella piscina e se ne va a piedi, tenendo per mano la moglie Lea Massari. Ne La marcia su Roma, '62, Gassman e Tognazzi, finto spaccone e finto tonto, disoccupati affamati, si confondevano con i fascisti in marcia verso Roma, pure loro degni d'uno sguardo più che sardonico. Il sorpasso, '62, è forse il più famoso dei film di Dino Risi: quando, dopo un viaggio in auto che è una testimonianza sociologica dell'Italia degli arricchiti, la macchina ha un incidente che uccide il suo compagno, Gassman neppure sa dirne alla polizia il nome, non ha pensato a chiederglierlo. I mostri, '63, comprende venti episodi brevi, è una «commedia all'italiana in pillole» neppure adesso dimenticata, se è vero che Striscia la notizia ha una rubrica intitolata I nuovi mostri: personaggi micidiali come il padre che educa il figlio alla sopraffazione (bella coppia, Ugo e Ricky Tognazzi bambino) o la matrona Gassman promotrice di premi letterari per vedere di fare l'amore con giovani scrittori.
Commedia all'italiana è una definizione imprecisa. In realtà Dino Risi, come gli altri, ha satireggiato soltanto la piccola borghesia di Roma: se affrontava i popolani, come in Straziami ma di baci saziami, 1968, era per irriderne l'ignoranza e la stupidità. Però non era insensibile all'attualità (La moglie del prete, '71) ed è stato nei Settanta l'unico regista italiano a raccontare il difficile rapporto tra un padre borghese e un figlio terrorista (Caropapà). Poi Risi dà l'impressione di perdere voglia e mordente, sembra opaco, irriconoscibile. È andato a vivere da solo in un bel residence romano ai Parioli: guai a chiedergli se prova solitudine. Fa ancora un film, significativamente intitolato Tolgo il disturbo, storia della passione di un vecchio per una bambina, vicenda di morte. In ricordo e celebrazione del suo primo film Poveri ma belli, dirige nel '96 Giovani e belli, con Anna Falchi: ma non viene bene. È finita.
Da La Stampa, 8 giugno 2008
Come molti dei nostri più grandi registi, Dino Risi arrivò al cinema quasi per caso. «Volevo fare il medico, il giornalista o il pittore», raccontava. Invece un giorno incontrò l'amico Alberto Lattuada da un antiquario a Milano e si trovò a fare l'aiuto, poi il regista di corti e documentari, infine il regista vero e proprio. Sempre "per caso" girò 53 film, almeno una dozzina dei quali destinati a restare. E sempre senza inseguire lo stile, la profondità o il capolavoro, come possono permettersi solo i grandi narratori, finì per dar forma a una delle "commedie umane" più originali e penetranti del nostro secondo Novecento.
Sono i registi come Dino Risi ad aver fatto nascere il detto secondo cui il cinema raccontò l'Italia della ricostruzione e del boom meglio della letteratura. È attraverso i suoi film così diversi e così misteriosamente coerenti che Risi è riuscito a parlare sempre degli altri di tutti noi lasciando intendere molto di sé. L'uomo amava sfuggire, negarsi, spiazzare. Il regista usava il cinema come un mezzo, una professione, un'occasione per vivere meglio e più intensamente. Praticando il mestiere con quella sicurezza e insieme quella sprezzatura che potevano produrre risultati memorabili come anche film da dimenticare.
Difficile essere meno "autori" di così. Eppure Il sorpasso, Una vita difficile e il più tardo Profumo di donna, ma già Il segno di venere, Il vedovo e poi naturalmente I mostri e l'irresistibile Straziami ma di baci saziami, sono suoi e inconfondibilmente suoi. Anche se fondamentali erano le collaborazioni con gli attori, da Sordi a Manfredi, da Franca Valeri all'amato Gassman, e capricciose le alchimie produttive (I mostri, per dire, doveva produrlo De Laurentiis con Sordi per la regia di Petri, invece lo fece Risi con Gassman e Tognazzi prodotto da Cecchi Gori), tutti questi film portano impresso il suo "tocco", quel mix così particolare di malinconia e comicità, brillantezza e ferocia, che può assumere la forma esteriore del grottesco solo per celare meglio la sua natura intimamente moralista.
Proprio così: il timido che amava vestire i panni del cinico era in realtà un moralista disincantato, capace di cogliere un mondo in un dettaglio, o di fissare una stagione in una scena. È stato questo a rendere memorabili, per generazioni di spettatori, scene e battute dei suoi film. Oltre che a rendergli particolarmente congeniale la forma del film a episodi, dello schizzo veloce che concentra un romanzo in un'istantanea, una vita in una battuta (il milanese Risi non si stancava di ammirare lo spiritaccio dei romani e la loro inarrivabile cattiveria verbale).
È il segreto dell'imitatissimo ma inimitabile I mostri, ma anche dei suoi primi corti (il cinema-rifugio di Buio in sala, la balera-oasi di Paradiso per tre ore). Mai un'immagine o una parola di troppo. Anche per questo Risi, che preferì sempre fare e sbagliare a non fare, girò tanti film a episodi (I nuovi mostri, Le bambole, I complessi, Vedo nudo, Sessomatto, I nostri mariti, ma anche l'insolito Noi donne siano fatto così, 12 sketches tutti interpretati da Monica Vitti). Mentre tutti i suoi grandi film, dai meno personali (Poveri ma belli) ai più memorabili (Il segno di Venere, Il vedovo, Il gaucho, Il giovedì, Una vita difficile, Il sorpasso...), sembrano obbedire a una ferrea logica interna che dà a ogni svolta del racconto una irrefutabile necessità.
Così il destino del Nando Moriconi di Una vita difficile, ex-partigiano idealista e insieme vigliacco, si fa metafora dei sogni e delle disillusioni di tutta una generazione; l'avventura del Sorpasso scandisce a colpi di incontri fatali e battute passate in proverbio la folle accelerazione del boom; i fallimenti del Gaucho o del Giovedì portano a galla il prezzo personale pagato in nome dello sviluppo e dei suoi falsi miti. Anche se Risi naturalmente non fa mai banale sociologia perché non riflette il paese, lo inventa, non racconta ciò che sta accadendo ma ne anticipa il senso e le forme. Perfino quando affronta figure lievi e fantasiose cone quelle dell'irresistibile Il segno di Venere, uno di quei film che all'epoca molti liquidarono come bozzettistico e che invece migliora ogni anno che passa.
A differenza dei film più "seri" degli anni 70, non sempre riusciti, con eccezioni notevoli come In nome del popolo italiano e naturalmente Profumo di donna. Uno dei film che Risi sentiva più suoi, anche se era tratto da Arpino, e uno dei pochi per i quali si batté fino in fondo. Affidando a quel militare cieco e in guerra col mondo, scolpito da un Gassman in stato di grazia, un autoritratto cifrato ma non troppo.
Da Il Messaggero, 8 giugno 2008
Eventi ordinari fanno straordinarie certe vite. La svolta per Dino Risi – morto ieri a Roma- è del 1940. Non fu l'entrata in guerra: fu l'entrata in un negozio di piazza San Babila a Milano. Passò per caso di lì anche il ventiquattrenne, Alberto Lattuada, che Risi conosceva. Lattuada stava per partecipare a un film sul lago di Lugano, lato italiano (Porlezza), Piccolo mondo antico, come aiuto di Mario Soldati. Oltre all'aiuto, serviva però un assistente alla regia, ultimo scalino nelle gerarchia del set. Risì s'offrì, Lattuada lo propose, Soldati l'accettò: mal ne incolse a quest'ultimo, non perché Risi fosse indegno delle esigue mansioni, ma perché la protagonista, Alida Valli, preferì le braccia dell'assistente a quelle del regista. Per lei fu un'infatuazione, per lui un amore: fra gli oggetti lasciati da Risi nel residence dove ha vissuto gli ultimi vent'anni, c'è il ritratto d'Alida allora. Il cuore spezzato dovette rimarginarsi alla svelta. C'era la guerra e Risi rischiò di finire in Russia. Non ci andò solo perché, figlio di un medico (quello di Mussolini direttore del Il popolo d'Italia), sapeva come ammalarsi, se era il caso. Poi ci fu la fuga in Svizzera fra il 1943 e il 1945, l'incontro nel Bernese con la futura moglie, il ritorno a Milano, il trasferimento a Roma senza troppi rimpianti, anche perché il successo –almeno quello inteso come esser pagato per fare ciò che si farebbe gratis –non tardò. E poi c'erano le donne. Non tutte le attrici si concedono ai registi. Ma quelle che lo fanno compensano la delusione per le altre. Risi non era uno di quelli - lista lunga e densa di nomi mitici – da «compromessi». Ma si sentiva lusingato se poteva strappare le prede all'amico Vittorio Gassman. Risi ha amato anche star che non avevano mai lavorato con lui. Nell'autobiografico I miei mostri (Mondadori), raccontò che Anita Ekberg lo aveva cacciato dal letto perché gelosa di... Gianni Agnelli che la tradiva con un'attrice francese. Chi vive male, si consola all' idea della vecchiaia e della morte: da vecchi, per non dire da morti, si è tutti uguali. È il socialismo biologico, più ineluttabile di quello economico. Risi però aveva vissuto bene, perciò invecchiare lo turbava. Si leggano i suoi aforismi di Vorrei una ragazza (Asefi), condensato d'amara allegria, con un ultimo desiderio in evidenza fin dal titolo: avere una ragazza che girasse nuda per casa. «Perché - Nei nostri brevi ma decennali dialoghi, mi disse più di una volta: «il desiderio non finisce, finisce solo il modo di appagarlo». Una ragazza nuda per casa era difficile da avere e, soprattutto, si sarebbe rivelata di poca compagnia. Lo sapeva Risi per primo. Allora meglio molte ragazze quasi nude in giro per un albergo! Così una carriera da regista, cominciata nel dopoguerra, mentre il concorso di Miss Italia imponeva le nuove leve dello schermo, s'è chiusa con un film-tv proprio sul concorso di Miss Italia, che gli offrì un ulteriore scampolo d'inebrianti adiacenze nella Salsomaggiore dell'estate 1999. Non fu un successo. A imporne alla Rai la diffusione, dopo una lunga controversia legale con l'organizzatore del concorso e più lunghi tagli, sarebbe stato solo il Leone d'oro alla carriera, riconoscimento tardivo della Mostra di Venezia per un regista che non la frequentava, mentre spesso era stato al Festival di Cannes. Qui Profumo di donna aveva avuto il premio per l'interpretazione a Vittorio Gassman. Sempre Profumo di donna sarebbe valso a Risi la nomination all'Oscar per il miglior film non americano; e da lì sarebbe derivato il rifacimento di Martin Brest, Scent of a Woman, con tanto di Oscar come protagonista ad Al Pacino. L'altra nomination di Risi sarebbe stata per la sceneggiatura dei Nuovi mostri, scritto e diretto con Monicelli e Scola. E la critica? Quella che ha seguito la carriera di Risi per mezzo secolo è finita al macero. Restano i dizionari dei film: Il Mereghetti 2006 (Baldini & Castoldi) per lo più lo stronca. I nuovi mostri? «Lo sguardo rimane quasi sempre in superficie, le situazioni appaiono gratuite e paradossali, incredibili, il cinismo tocca punte eccessive». Fantasma d'amore? «Artificioso e contorto». Sesso e volentieri? «Meno che grossolano: solamente pietoso». Dagobert? «Inutilmente volgare». Scemo di guerra? «Finale poco incisivo ed evidenti squilibri». Teresa? «Dino Risi e Bernardino Zapponi (co-sceneggiatore) una volta rappresentavano qualcosa nel cinema italiano». Direte: stroncati perché film del declino. Allora ecco i giudizi dello stesso dizionario sui film del Risi degli albori. Poveri ma belli? «Proletario nell'estrazione ma piccolo borghese nello spirito». Belle ma povere? «La storia procede per tirate moralistiche e in maniera slegata e meccanica». La nonna Sabella? «Bozzettismo strapaesano ».Venezia, la luna e tu? «Commedia turistica, sceneggiatura inesistente». Poveri milionari? «Farsa anonima». Il Leone alla carriera, se non entusiasmò Risi, ridusse l'attendibilità di questi (pre) giudizi. A voler classificare la sua carriera, sono classici non solo Una vita difficile, Il sorpasso e I mostri, ma anche Il giovedì, L'ombrellone, Operazione San Gennaro, Straziami ma di baci saziami, In nome del popolo italiano, Profumo di donna e Anima persa. Poi vengono Il vedovo, Il mattatore, Il gaucho, Vedo nudo, La moglie del prete, La stanza del vescovo, Primo amore. Quali altri registi italiani si sono tenuti così a lungo così in alto? Non Rossellini; non Fellini; non Antonioni; non Pasolini, non Bertolucci, non Zeffirelli, non Pietrangeli, non Zurlini. Certo, capaci di exploit superiori al miglior Risi, ma di solito inferiori e spesso velleitari, fin dalle intenzioni. Sono stati genio e sregolatezza. Risi è stato genio e regolatezza.
Da Il Giornale, 8 giugno 2008
Non è possibile dedicare a Dino Risi - spentosi quietamente ieri mattina sul divano del suo residence - qualche frase di funebre circostanza. È certo, invece, che il burbero maestro, l'uomo elegante e affascinante, il nemico giurato di ogni retorica, l'innamorato pazzo di una vita assaporata nei suoi risvolti più carnali, luminosi, paradossali mancherà terribilmente al cinema italiano che si è nutrito, spesso senza riconoscerlo, del suo talento anticonformista e della sua statura miracolosamente distaccata e fervida nello stesso tempo umano e artistico. «È già storia»: con quest'uscita, come al solito insieme affettuosa e sarcastica, Dino Risi comunicava in genere agli amici seduti al suo fianco l'intenzione di andare a dormire. Purtroppo è quello che oggi siamo costretti a ripetere, con l'amicizia profonda cresciuta negli anni di reciproca confidenza. Peraltro la «storia» riguarda, ovviamente, l'intera comunità del cinema italiano e internazionale che si appresta in queste ore a condividere un cordoglio e un rimpianto tutt'altro che cerimoniali: Dino Risi, come ha dimostrato fino alla sua ultima apparizione pubblica, non è stato come amava definirsi un «maestro per caso», bensì uno dei giganti che hanno costruito la leggenda del cinema italiano e sulle cui spalle dovremo cercare idealmente d'arrampicarci per continuare a coltivare la speranza di un suo rinnovato prestigio artistico e professionale. Le doti specifiche del regista, cioè quelle del creatore d'immagini e del raccontatore di storie, come non troppo spesso accade hanno, in effetti, coinciso con quelle dell'uomo.
Un'ironia e un'autoironia taglienti e non di rado «cattive», una capacità d'osservazione e d'interesse nei confronti degli altri pressoché spasmodica, una libertà di pensiero e giudizio giammai minimamente scalfita, un disinteresse assoluto e sprezzante nei confronti dei farisaici principi del dovere sociale, dell'impegno culturale, della retorica istituzionale e della correttezza politica e, sopra ogni cosa, la voglia inesausta di poter cogliere sempre e comunque qualsiasi bagliore di piacere fisico o estasi sentimentale che fosse possibile strappare alla monotonia della vita. Dino Risi, nato a Milano il 23 dicembre del 1916 e avviato a una brillante carriera di medico psichiatra, incontra il cinema nei difficili anni della guerra, ma anche in quei momenti di giovanile entusiasmo non si dedica al mestiere con devozione o fanatismo cinéfili. Se per lui il cinema ha rappresentato nient'altro che «una bella vacanza», la gavetta sui set di Mario Soldati e Giacomo Lattuada lo è ancora di più, proprio perché il suo fisico snello, i suoi fluenti capelli, i suoi occhi azzurri e le sue maniere eleganti si ritrovano pefettamente in sintonia con un mondo che, nonostante le tragedie del momento, è ancora avvolto dalla seducente magia delle epoche d'oro, dal baluginante carisma delle dive e dei divi, dal fascino voluttuoso dell'immersione nel buio della sala. Chiamato a Roma da Carlo Ponti, grazie al successo di un geniale cortometraggio intitolato, appunto, «Buio in sala», Risi firma il primo film nel 1952 («Vacanze col gangster»), ma soprattutto inaugura con altri compagni di strada una stagione cruciale del nostro cinema, quella che chiama a raccolta il grande pubblico - disorientato dal precoce tramonto della «rivoluzione» neorealista - sotto le insegne di una spensieratezza dal retrogusto amaro, di un esilarante girotondo di tipi umani e di una rapsodia comica tanto più sorprendente quanto più minimalistica. Nel passaggio tra i Cinquanta e i Sessanta l'occhio di Dino si fa sempre più onnivoro, sensuale, irridente: prima reinventa la farsa urbana con le deliziose antinomie di «Il segno di Venere», poi celebra la finta epopea dei bulli e pupe romaneschi «Poveri ma belli» e infine firma i capolavori che già all'inizio toccano i vertici del trionfo epocale a cui è destinata la commedia italiana, facendo di Gassman, Sordi, Tognazzi e Manfredi gli irrefrenabili mattatori del genere. A «Una vita difficile», «Il sorpasso» e «I mostri» è tuttavia inutile riservare le solite lodi «del senno di poi» (perché è bene ricordare che contro Risi e il suo cinema scesero accanitamente in campo gli allora egemoni custodi dell'ortodossia estetico-politica di sinistra): basterà dire che i loro sketch, la loro compattezza aggressiva, il loro anticonformismo e la loro insinuante malinconia hanno saputo cogliere i convulsi mutamenti del costume nazionale molto meglio dei libri di storia. Risi, insomma, senza mettersi in cattedra e, anzi, assaporando senza inibizione alcuna il piacere dell'estemporaneità grottesca e della battuta fulminante ha scolpito nell'immaginario collettivo l'esuberanza, il cinismo, l'anarchia spirituale, l'opportunismo e finanche la cialtronesca generosità della generazione catapultata nelle effimere godurie del boom e del miracolo italiano. La forza e la perdurante, indiavolata vitalità dei film di Dino si tramandano ancora meglio, però, grazie ai tanti titoli successivi, ora più fortunati ora meno nel riscontro di critica e botteghino, in grado d'inchiodare un particolare abnorme del costume e di utilizzare il nostro vissuto (il calcio, il sesso, le canzoni, la giustizia, il terrorismo) per sorreggere la corsa pazza dei personaggi verso una spudorata felicità, che spesso coincide con la morte. In questo senso chi ama Risi avrà ugualmente carissimi «L'ombrellone», «Straziami ma di baci saziami», «In nome del popolo italiano», «Profumo di donna» (candidato due volte all'Oscar e poi riproposto nel remake con Al Pacino), «La stanza del vescovo», «Sono fotogenico», «Sesso e volentieri», «Fantasma d'amore» o, ci teniamo a sottolinearlo perché legato alla nozione più schietta e poetica di «napoletanità», «Operazione San Gennaro» perché in ognuno di essi la leggerezza del tocco riesce a imprigionare la verità, o meglio quella quota, certo infinitesimale, di vera vita che tuttavia solo l'ex arte chiave del Novecento può racchiudere nel magico andirivieni tra i sogni segreti dello spettatore e le ombre ogni volta evocate dal proiezionista.
Da Il Mattino, 8 giugno 2008
La prima cosa che ci viene da dire, su Dino Risi, è che era un uomo bellissimo. Alto, magro, elegante, con quella chioma di capelli che ultimamente erano candidi e avevano cominciato a brizzolarsi molto presto. Ogni tanto lo scambiavano per l'avvocato Agnelli. Lui, che aveva la stessa «erre» moscia, non deludeva mai nessuno: «Mi chiedono come vanno le azioni Fiat. Comprate, comprate, rispondo sempre». La «erre» rendeva strepitosi certi suoi racconti. Come le serate teatrali a casa di Vittorio Gassman, che nella villa all'Aventino si era fatto costruire un piccolo teatro con le poltrone rosse. «Dopo cena Vittorio recitava, facendo tutti i personaggi, l'Adelchi di Manzoni o l'Oreste di Alfieri». Pausa. Molto sapiente. Poi, la chiosa: «Una rottura di coglioni...», e vi lasciamo immaginare cosa diventava, detta da lui, la parola «rottura». Dino Risi è stato un immenso umorista e un acutissimo osservatore del mondo. Aveva un occhio cinico e clinico per l'umanità, da ex medico che, parole sue, stanco di curare gente che non guariva si era dato al cinema (è la frase sulla copertina del suo bellissimo libro I miei mostri, edito da Mondadori nel 2004). Era inguaribilmente curioso del prossimo: «intervistare» le persone, famose e comuni, era il suo modo di costruirsi un archivio di storie e di battute. Ma il primo animale/uomo al quale applicava questa tecnica era se stesso. Nessun altro avrebbe potuto raccontare così la separazione dalla moglie: «Le dissi: mi sembra che non ci prendiamo più tanto, meglio che ci lasciamo. Rispose: ti preparo le valigie». Quel giorno andò a sistemarsi nel residence Aldrovandi di Roma, ai Parioli, pensando di rimanerci una settimana: ci è vissuto per trent'anni. Nel libro citato, scriveva: «Il 23 dicembre 2003 ho compiuto 87 anni. Pensavo che non avrei superato l'anno 2000. Ho dovuto rifare i conti. Tutti i miei amici se ne sono andati. Tutti più giovani di me. L'essere ancora vivo mi chiedo se sia un premio, o un castigo. Ho fatto un esame di coscienza. Non sono orgoglioso di me. Sono stato stupido, infedele, bugiardo, vile, ipocrita, fatuo, furbo, vanesio, indecente, annoiato, triste, invidioso, disperato. Ma anche buono, generoso, innamorato, fedele, allegro, sognatore, dubbioso, timido, ingenuo, ignorante, educato, rispettoso, onesto. Ho amato molto la natura, il mare, le donne, il cinema, il teatro, i viaggi, i libri, la musica, il vino, le fragole con la panna, gli spaghetti alla puttanesca, la cioccolata, le paste di mandorla». Il 2000 era un suo tormentone. Diceva sempre di avere «sforato» e di non veder l'ora di andarsene. Più che spaventato dalla morte, si dichiarava incuriosito: «Mi aspetto delle sorprese, pur essendo laico dalla nascita». Sulla propria lapide avrebbe voluto veder scritto «Nato a Milano, morto a Waterloo», perché era molto affascinato da quella battaglia e dal modo in cui la racconta Stendhal nella Certosa di Panna. Ma non gli dispiaceva nemmeno la frase alla quale aveva pensato, per la propria tomba, Walter Chiari: «Non preoccupatevi, è solo sonno arretrato».
Come il grande Walter - e come Lattuada, Ferreri, Comencini, Visconti - Dino Risi era uno di quei milanesi grazie ai quali si è ancora un po' orgogliosi di essere nati da quelle parti. A Milano aveva vissuto gli anni di guerra, prima di riparare in Svizzera dopo l'8 settembre '43, e aveva cominciato a bazzicare il cinema come aiuto-regista. Sul set di Piccolo mondo antico conobbe la meravigliosa Alida Valli, uno dei suoi primi grandi amori, e assistette alla scenata di Anna Magnani che, preso un vagone letto da Roma, irruppe durante un ciak, assestò al marito Massimo Serato due ceffoni, gli disse «Scusami, ma lo dovevo fà» e ripartì col primo treno. Si era laureato in medicina - come suo fratello Nelo, anch'egli cineasta e poeta - per far contenta la mamma, rimasta vedova (il padre era un medico) quando Dino aveva solo 12 anni.
Alt. Questo non è il necrologio di un cineasta, ce ne rendiamo conto, ma il ricordo di una persona di rara simpatia, di acuminata intelligenza, che ci mancherà moltissimo. Ma il dovere ci impone di dire qualcosa anche sul regista, e allora diciamolo. Dino Risi: il segno di Venere (1955), Poveri ma belli (1957), Il Vedovo (1959), Il mattatore (1960), Una vita difficile (1961), Il sorpasso (1962), La marcia su Roma (1963), Il giovedì (1963), 1 mostri (ancora 1963!), Il gaucho (1965), L'ombrellone (1966), Operazione San Gennaro (1968), Straziami ma di baci saziami (1968), In nome del popolo italiano (1971), Mordi e fuggi (1973), Profumo di donna (1974), 1 nuovi mostri (1977), Caro papà (1979), Fantasma d'amore (1981)... Pochi altri registi, italiani e non, hanno inanellato una simile serie di gioielli. Ha lavorato con tutti i grandi attori italiani, e ha raggiunto un'intesa pressoché perfetta con Vittorio Gassman (17 film insieme contando la comparsata in Una vita difficile e Il successo, ufficialmente diretto da Mauro Morassi) e con quell'autentico fenomeno che era, ed è, Franca Valeri (che ebbe l'idea per il segno di Venere e fu strepitosa, in coppia con Alberto Sordi, nel Vedovo). Ha tirato fuori il meglio da tutti i grandi sceneggiatori della commedia all'italiana: da Rodolfo Sonego che praticamente raccontò la propria autobiografia in Una vita difficile, da Age & Scarpelli, da Ettore Scola & Ruggero Maccan (Scola lo seguì in Argentina per scrivere Il gaucho nottetempo, mentre di giorno Risi girava: «Una notte - racconta Ettore - venne nella mia stanza Amedeo Nazzari chiedendomi se era proprio indispensabile che il suo personaggio fosse cornuto»).
Risi viene quasi sempre accomunato a Monicelli. I due sono stati ruvidarnente amici, ma sono due artisti assai diversi. Monicelli è a suo modo un regista epico, di un'epica popolata di straccioni come i ladri dei Soliti ignoti, i fanti della Grande guerra e i militi dell'Armata Brancaleone. Risi è prima di tutto un geniale cronista - parola che, detta da un giornalista, è nobilissima. Nessuno ha raccontato come lui il costume italiano dagli anni '50 ai '70. Basterebbe fare l'elenco delle canzonette di successo presenti nei suoi film (come Pinne fucili ed occhiali e Guarda come dondolo nel Sorpasso) per capire quanto fosse in sintonia con il paese reale. Nel finale di In nome del popolo italiano (film che anticipa Tangentopoli) inventò il Fantacalcio: fece vincere all'Italia una partita con l'Inghilterra, cosa che nel '71 non era ancora mai successa. Il calcio era l'unica cosa nella quale era inaffidabile: interista ai tempi di Meazza, era diventato milanista negli anni '50, stregato dal Gre-No-Li. In politica si definiva «terzista», aggiungendo subito di non sapere cosa volesse dire. Di Berlusconi diceva: «Ha capito gli italiani come pochi. Ha capito che sono dei cialtroni». Una volta gli diede 10.000 lire: «Alla fine di una cena Confalonieri si mise al pianoforte e Berlusconi cantò La vie en rose. Ho tirato fuori 10.000 lire e gli ho detto: "Per l'orchestra"». Sulla vita, era d'accordo con Raffaele La Capria: «E quello che ci accade mentre ci occupiamo d'altro». Sulla morte, la immaginava come Jack London quando descrive il suicidio di Martin Eden: «E nello stesso istante in cui lo seppe, cessò di saperlo». Ai figli Marco e Claudio, bravi registi ai quali siamo vicini, piacerà ricordare un necrologio della nonna - la mamma di Dino - da lei stessa dettato al Corriere: «Cari figli, se questa mia violenta trasfigurazione dovesse aumentare la vostra pena, vi chiedo scusa: ma sono aspettata là».
Da L'Unità, 8 giugno 2008
Non sono poi molto lontani gli italiani di oggi da quell'Italia 1956 povera ma bella, inventata da Dino Risi: povera, bella, ma anche casta, fresca, parrocchiale, senza riferimenti che non fossero la propria giovinezza, il proprio quartiere, il proprio vicino, un futuro senza ambizioni di trionfi o lussi inattesi, modesto come il loro presente.
Forse se l'era inventato il regista quarantenne, quell'angolo di Roma e la sua piccola storia che trascinava finalmente il neorealismo miserabilista nel rosa più rosa che il pubblico soprattutto femminile attendeva. Forse le schermaglie amorose proletarie e piccolo borghesi erano davvero così leggere e capricciose, di sicuro le poche bellissime d'epoca, rappresentate dalla fulgida Marisa Allasio, avevano come i suoi personaggi il seno a punta ben imbustato e asessuato, e tenevano come massimo tesoro la loro verginità. I giovanotti magari erano in generale più sicuri di sé, erano loro a scegliere e a sedurre, e non il contrario, come quei bei ragazzi che erano allora Renato Salvatori e Maurizio Arena. Ma anche quello fu un gioco intelligente di Risi, che aveva intuito come le ragazze cominciassero a stancarsi della sudditanza sentimentale e sessuale. Nel cinema italiano degli anni 50 e 60 c'era di tutto, una moltitudine di attori magnifici, di grandi registi, un'inesauribile attenzione alla realtà che andava dalla famosa commedia all'italiana, al cinema politico, a quello intellettuale. Ce n'era per tutti, e gli italiani si schieravano. Anche Risi si era schierato, dichiarando che aveva orrore delle storie complicate, della puzza sotto il naso di chi riteneva interessanti solo i film che nessuno capiva. Di Antonioni disse una cosa cattivissima: «Ha inventato l'incomunicabilità perché non sapeva scrivere i dialoghi cinematografici, che è una delle cose più difficili del mondo». Proprio perché Poveri ma belli, costato solo 62 milioni di lire, era stato un enorme successo di pubblico i critici scuotevano le loro teste pensose. Ma bisogna anche dire che il nostro cinema era così ricco di meraviglie che quasi non c'era tempo di riflettere su questo fiorire di commedie. Forse anche perché, ancora traumatizzati dal dopoguerra, ridere e divertirsi pareva un gesto impolitico. A disposizione c'erano attori formidabili: dai film di Risi passarono tutti i più grandi, soprattutto del tipo ormai del tutto scomparso, capaci di far ridere ma anche riflettere, interpretando i difetti, i vizi, le paure, le vigliaccherie dell'italiano medio, da Gassrnan a Tognazzi, da Sordi e De Sica a Manfredi. Per Poveri ma belli il regista gli attori se li era inventati, giovani e senza pretese, e il film pareva fatto apposta per adattarsi, con i suoi amori scherzosi e pudichi, nessuna inquietudine sociale e neppur un accenno agli eventi politici, a un'Italia democristiana, dove le gerarchie avevano ripreso il loro posto e la politica intendeva andarsene per conto suo, mentre il "popolo" aveva tutto l'agio di divertirsi al cinema, pensando alla sacralità della famiglia e non facendosi cattive e pericolose idee.
A Risi piacevano molto le donne e alle donne lui piaceva, bello, simpatico, allegro, geniale, prima che con gli anni s'immalinconisse e diventasse schivo e solitario. Nei film le raccontava a modo suo, cioè al modo semplice e superficiale degli altri italiani, anche quando gli capitò nel 1955 di dirigere in due film una Sophia Loren nel pieno splendore dei 20 anni. In Pane amore e... terzo della serie in cui l'attrice napoletana rappresentava la bellezza popolana italiana al posto di Gina Lollobrigida, la vestì di rosso e la fece ballare "Mambo italiano" scuotere i fianchi ed esibire la generosa scollatura. Era un omaggio all'eros del maschio italiano, alla femminilità sognata in tutta la sua opulenza e vitalità, mentre già le donne cominciavano a immaginarsi diverse, perdute nella magrezza elegante e sofisticata di dive come Audrey Hepburn. Nel Segno di Venere Risi contrappose alla bellissima Sophia che tutti gli uomini vogliono, la cugina Franca Valeri, la classica bruttina dignitosa e vogliosa continuamente frustrata. Delle brutte si rideva allora innocentemente, il politicamente scorretto ancora non esisteva, le femministe dormivano.
Dal cinema politico come quello di Rosi e Petri, Risi aveva detto di essersi sempre tenuto lontano, «perché non mi è mal piaciuto schierarmi, anche per non perdere il piacere di fare il mio cinema».Eppure Il sorpasso resta tuttora un grande film che raccontando nel 1962 quel cambiamento antropologico che fu il boom economico, fu una specie di manifesto socio-politico dei guasti che il consumismo stava producendo. Su un Suv di allora, l'Aurelia decappottabile e supercompressa, Vittorio Gassman, geniale nella sua cafonaggine oggi rappresentata dagli aspiranti divi televisivi, corre spericolatamente per nascondere con la vitalità, l'esagerazione, un miserabile edonismo, la coscienza della sua pochezza e del suo fallimento, trascinando con sé lo sprovveduto studente Jean-Louis Trintignant. Un tipo questo, più difficile da trovare oggi, forse sepolto dalla tempesta di richiami al lusso, allo spreco, all'esibizionismo, che imperano ovunque. Pare impossibile ma anche per questo film i critici arrivarono in ritardo, comunque dopo il pubblico. Da anni però, venerato. Che l'Italia in fondo sia poco cambiata lo racconta un altro film di Risi, che malgrado la sua avversione all'impegno, impegnato lo è. E quel In nome del popolo italiano, fin troppo amaro già nel 1971, cioè 37 anni fa, che mette di fronte un industriale corrotto e fascista (si era ancora in tempi in cui si deprecava), Vittorio Gassman, e un magistrato integerrimo e dalla vita severa, Ugo Tognazzi. Non si ride, si pensa, ci si indigna, ancora oggi: allora lo spettatore italiano stava comunque dalla parte del magistrato, anche se pur di far condannare quell'odioso sbruffone imbroglione per un delitto che in realtà non aveva commesso, distrugge le prove della sua innocenza. Adesso non succederebbe più, da quella parte anche del giudice più onesto, ci stanno sempre in meno.
Da La Repubblica, 8 giugno 2008
Quando nel 2005, quasi alla vigilia del suo novantesimo compleanno, gli ottenni il David di Donatello alla carriera, mi disse subito: "Raccornanda, a chi me lo consegnerà, di non definirmi uno dei padri della commedia all'italiana. Mi sono cimentato anche in quella, e non lo rinnego, nella mia vita, però, penso di aver fatto anche dell'altro". Difatti. Al suo esordio, nel '52, con "Vacanze col gangster", si era nel clima che già cominciava a dilagare proprio della cosiddetta commedia all'italiana e quel film vi si poteva ricondurre, ma i ricordi più seri del Neorealismo cui ancora molti pensavano pur cominciando a trascurarlo, mi sembrò subito che si potessero riconoscere in quel breve episodio su delle servette e dei militari in sala da ballo che spiccava con toni decisi, l'anno dopo, in "Amore in città", non a caso da un'idea di Zavattini. Pur accogliendo, di lì a poco, proprio gli schemi e gli accenti della commedia italiana nella fortunata trilogia composta da "Pane, amore e..." (seguito, con Sophia Loren, dei due successi dal titolo quasi eguale costruiti da Luigi Comencini attorno a Gina Lollobrigida), dal "Segno di Venere" e, soprattutto, da "Poveri ma belli", il suo primo, felicissimo successo popolare in cui, però, nella festosità dell'insieme, si cominciavano a intuire note, se non proprio scettiche, certo piuttosto amare. Quasi a voler segnare, nel genere, una svolta decisa.
Ancora qualche anno (e qualche film tra cui "Venezia, la luna e tu", con un duetto piacevole, in veneziano, tra Manfredi e Sordi) ed ecco la svolta farsi più netta ed imporsi: "Il vedovo", con un duetto, adesso, tra Alberto Sordi e Franca Valeri in cifre così nere (e drammatiche) che non fu difficile vedervi perfino dei riferimenti sicuri al caso recente dell'omicidio Fenaroli.
Cifre meno nere ma in cui, ancora una volta, prevaleva il cinismo, fra truffe e inganni non di rado anche cupi, nel "Mattatore", in quei Sessanta che già annunciavano il nostro boom economico ma in cui un poliedrico Gassman, al suo primo incontro con Risi, cominciava a tracciare un ritratto del tutto negativo degli espedienti cui molti ormai si dedicavano per praticare l'arte tutta nazionale di arrangiarsi.
Un'arte, ribaltata nelle premesse e negli approdi, in quella che va di certo considerata fra le opere maggiori di Risi, "Una vita difficile", con un Sordi persino più nero che non nel "Vedovo", ma solo perché era il nero a dilagargli attorno, spegnendoli, fra società e politica, quasi il ricordo di ogni luce.
Non più guardandosi attorno, ma studiando, in un carattere, le conseguenze di quel periodo sempre più contraddittorio e turbato ecco Risi regalarci, nella pienezza di tutti i sui mezzi espressivi (e narrativi), quell'altro grandissimo film che fu "Il sorpasso" in cui Gassman gli tornava al fianco con la stessa tracotanza del "Mattatore", riuscendo, però, grazie ad una regia attenta, a equilibrare contraddizioni e contrasti, e mettendo d'accordo il comico e il tragico e finendo per dare, al secondo, spazi e priorità, maggiori.
L'anno dopo (1964), fingendo Risi di tornare al comico con "I mostri", andò persino più a fondo nel dramma e, addirittura, nell'orrore. Era un seguito di caricature dei gusti e del modo d'essere di quegli anni, ma finivano in realtà per risultare delle maschere tragiche. Da cui ritrarsi con angoscia anche per il disegno terribile con cui, pur tentando di far sorridere, ce le proponevano sia Gassman sia Tognazzi, "mostri" davvero.
Nei Settanta, ecco Risi affrontare anche il tema del terrorismo, sia con "Mordi e fuggi", certamente una commedia, ma amarissima, sia con "caro papà", il primo con Mastroianni il secondo ancora con Gassman. Un attore che Risi, in quello stesso decennio, ci avrebbe nuovamente fatto incontrare in un altro dei suoi capolavori, "Profumo di donna", da "Il buio e il miele" di Giovanni Arpino, anche questa volta in magnifico equilibrio fra il patetico e l'umor nero, con una tale sensibilità drammatica e una tale finezza psicologica invano ripresi, di recente, quando, dato il successo anche internazionale del film, ci fu qualcuno a Hollywood che ritenne possibile tentarne, in chiave americana, un rifacimento. Spesso implausibile.
Con gli Ottanta siamo alla revisione di un passato di cui cercano nuove chiavi (e nuove svolte) nel presente. Con la satira antimilitarista, ad esempio, di "Scemo di guerra", ispirato, con l'interpretazione di Beppe Grillo, a quello stesso diario di Mario Tobino, "Il deserto della Libia", cui si è rivolto di recente anche Mario Monicelli ne "Le rose del deserto". Senza dimenticare "Il Commissario Lo Gatto", con Lino Banfi, con allusioni politiche, e, arrivati ai Novanta, quel ritorno a Gassman con "Tolgo il disturbo" in cui, ancora una volta, Risi riuscì ad esprimere II volto (e i difetti) della società che gli stava attorno, considerata in uno dei suoi aspetti più negativi anche se poco appariscenti, il rispetto scarsissimo per la vecchiaia.
Quel Gassman "nonno", ben accetto solo dalla sua nipotina, restano il segno, ed il sigillo di una carriera cui il cinema ha dovuto tanto. E, appunto, nonostante le citazioni della commedia all'italiana, anche con molte voci e molti echi. All'insegna della grandezza.
Da Il Tempo, 8 giugno 2008
Lo chiamavano il regista della «commedia all'italiana». Alcuni tra i migliori esempi di quella tendenza che rese popolare il nostro cinema portano la sua firma. Ma Dino Risi (morto ieri mattina a Roma, a 91 anni, nel residence in cui viveva ormai da anni, domani la camera ardente alla Casa dei Cinema di Roma a Villa Borghese dove si terrà una cerimonia laica) sapeva fare anche dell'altro: i documentari realistici dell'inizio (da Barboni a Buio in sala), le storie giovanili tinte di rosa (la serie, fortunatissima, di Poveri ma belli); il film drammatico come il malinconico Il giovedì su un padre rimasto bambino e suo figlio; il racconto impaginato alla maniera dei fumetti; Straziami ma di baci saziami con tanto di muto che, ritrovata la parola, si chiude in convento dove vige la regola del silenzio; e i racconti gotici come Anima persa. Non tutti i suoi film sono memorabili. Ce ne sono però di ottimi, passaggi obbligati nell'avventura del nostro cinema: Una vita difficile, La marcia su Roma, Il sorpasso, I mostri, Profumo di donna. Quanto basta a far la fortuna di un cineasta.
Dino Risi era un uomo bello, un po' ritroso al vertice della carriera, dalla battuta spesso pungente e dalle amicizie che duravano una vita (con Vittorio Gassman, per esempio). Si denigrava dicendo: «Ho sentito che c'era molto di me, per esempio, nella cialtroneria di un certo Sordi», e si dimenticava di aver detto, quando non era comodo, di non credere alla continuità stilistica del neorealismo e di optare per lo spettacolo anche con punte di calcolata volgarità, di credere cioè in quella che viene chiamata «politica dei generi» e che lui, cineasta che non ha mai preteso d'essere considerato «autore», seguì con assoluto rispetto. Non era uno venuto dal nulla. Era laureato in medicina, ma un breve soggiorno come medico in un manicomio lo aveva convinto che quello non era mestiere fatto per lui. Il suo amico Alberto Lattuada gli aveva proposto di fargli da assistente in Piccolo mondo antico di cui era aiuto regista. Risi ci andò e si innamorò (o fu lei?) di Alida Valli, la diva più ammirata di Cinecittà. (Dirà più avanti Risi: «Sono sempre stati un sentimentale. Ho pianto per amore, a lungo, in tre grandi occasioni. E che, più delle donne, mi è piaciuto innamorarmi»). Risi, per provare quel che sapeva fare, girò dei documentari (allora venivano proiettati per legge nelle sale pubbliche assieme a un lungometraggio) e scrisse di critica. Poi, sicuro di sé, lasciò la sua Milano e prese il treno per Roma.
Aveva in tasca diversi progetti. Il produttore Mambretti scelse quello di Vacanze col gangster. Protagonista era un ragazzo di nome Mario Girotti che poi si fece chiamare Terence Hill. Il film andò bene. Altri ne seguirono. Tra essi Il segno di Venere che spianò la strada che lo avrebbe condotto a Poveri ma belli che suo modo colse le trasformazioni di costume che allora interessavano l'Italia. Ci sarebbe voluto del tempo prima che si parlasse di «commedia all'italiana».
Quando se ne prese a parlare non tutti i critici si mostrarono contenti dell'abbandono del neorealismo. E spesso stroncarono la nuova produzione accorgendosi, tuttavia, della buona riuscita di film come Una vita difficile e La marcia su Roma. In una commedia che rivelò le qualità di Sordi, Il vedovo, Risi sottolineò la finzione dell'ironia che a volte molto si avvicina al cinismo e diede il via a una galleria di mostri sotto una luce al neon. Non a caso un suo film, popolarissimo, si intitolò I mostri. Gente di conoscenza ma, per certa carenza morale, tutto sommato mostruosa. Che cos'era in fondo lo scatenato Gassman di un film come il sorpasso o tante figure disegnate da Tognazzi o Sordi e, perfino, da Nino Manfredi o Monica Vitti (interpreti, tutti, che con Risi diedero il meglio di se stessi)?
Risi, oltre a padroneggiare alla perfezione i meccanismi della commedia, aveva possibilità di utilizzare un genere al quale i registi italiani sono poco abituati: il film gotico che riuscì alla perfezione al regista in Anima persa, La stanza del vescovo e Fantasma d'amore. Qui Risi visita con bella sicurezza, senza mai concedersi cadute di gusto, i passaggi obbligati del racconto gotico (telefonate misteriose, ammonizioni di spauriti evocatori delle forze oscure, case abbandonate o abitate da gente strana, apparizioni sconcertanti, ecc.). Ma, mentre va intessendo con bravura il suo intrigo, non dimentica le qualità di osservatore di costume, le ironie, le frecciate che fecero di lui, in alcune occasioni, un maestro della «commedia all'italiana».
Da Avvenire, 8 giugno 2008
Intervistato sul significato e sugli spunti di quel vario contenitore che si chiamò "commedia all’italiana", Dino Risi la definì "una fusione di dolceamaro, un genere di film divertenti che allo stesso tempo dicevano qualcosa su un particolare momento della società italiana... Erano tutti film di critica sociale e di costume, ma non li abbiamo fatti con la consapevolezza, con la premeditazione, con l’idea di lanciare il famoso messaggio: anzi, direi che una delle qualità della commedia all’italiana era proprio quella di scartare il messaggio premeditato, che era invece la grande preoccupazione di autori più nobili... e più noiosi". Da quell’intervista sono passati quasi vent'anni; allora Dino Risi era ancora in piena attività e tentava, come gli altri artefici di quello che era stato il nostro genere più glorioso, di rivitalizzarlo percorrendo nuove strade e usando i volti di nuove generazioni: si cimentava con una sorta di gotico lacustre o padano (La stanza del vescovo, 1977, Fantasma d’amore, 1981) o arrischiava con Pozzetto alla conquista di Cinecittà (Sono fotogenico, 1980) o con Beppe Grillo alla guerra di Libia Scemo di guerra, 1985). Ma, da uomo di cultura e di cinema, Risi sapeva che gli anni d’oro della commedia erano definitivamente tramontati. Nella stessa intervista aggiungeva: "La negatività è forse consistita nel copiarsi vicendevolmente, nel non sviluppare idee nuove, o più semplicemente in una certa ripetitività dovuta anche a quel gruppetto di attori che ne erano gli interpreti, e che ha portato il fenomeno a "stancarsi"". La commedia all’italiana in pratica, con le sue diramazioni, i suoi filoni, le sue filiazioni affrettate e scollacciate, mangiò se stessa, come quasi sempre accade ai generi cinematografici di grande successo; si consumò nell’abuso, nella stanchezza delle idee, nell’incapacità di agganciare con corrosiva puntualità la realtà che stava cambiando. I tempi, i ritmi, probabilmente gli ideali, non erano più quelli. Ma tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta, la commedia fu davvero lo specchio del nostro mondo, dall’eccitazione del boom all’immoralità della politica, dalla vigliaccheria roboante e maldestra dei nuovi ricchi al malinconico pugno di mosche con cui spesso vengono abbandonati nel finale.
Fu un cinema di sceneggiatori (Sonego, Age e Scarpelli), di attori-mattatori (Gassman, Sordi, Tognazzi, soprattutto), di registi (Monicelli, Scola, Loy, Salce, Risi naturalmente), generato con naturalezza dall’intreccio tra neorealismo e cinema comico, e che assunse la sua forma definitiva nel momento in cui spostò il proprio obiettivo dal popolo degli anni Cinquanta alla borghesia dei Sessanta, quando al posto di tranvieri, operai, contadini, impiegatini divennero protagonisti i carrieristi, i piccoli industriali o gli arrivisti cui il boom economico consentiva (o faceva sperare) tutto. Era, dopo la ricostruzione, il trionfo dell’arte di arrangiarsi e, come ha scritto in tempi non sospetti il migliore studioso italiano della commedia, Maurizio Grande, del suo fondo drammatico. "È proprio la drammaticità dell’arte di arrangiarsi che costituisce il tratto peculiare della commedia italiana. L’accordo dissonante fra storia e commedia dà forma e sostanza a un linguaggio comune della sopravvivenza in una società di maschere in parata (le maschere del politico, dell’ideologico, dello sviluppo aberrante, della corruzione civile e delle mitologie del benessere a ogni costo). Il cinema italiano mette in commedia il cinismo e il conformismo della politica, del costume, dell’etica, della religione: mostra le fragili architetture del rilancio economico e le contraddizioni che tenta di coprire con il perbenismo le pulsioni più inconfessabili (soprattutto l’inganno dei sentimenti e la facciata di un moralismo risibile). In questa parata di maschere la crisi del soggetto appare patologicamente esasperata, pateticamente eccedente, umanamente insostenibile". Oggi è chiaro che film come Una vita difficile (1961), Il sorpasso (1962), I mostri (1963), per citare solo tre dei titoli più "esplosivi" di Risi, erano acuminati ritratti di quel fondamentale passaggio storico e psicologico. Ed è naturale la punta di rimprovero rintracciabile in tutte le dichiarazioni degli autori e interpreti dell’epoca nei confronti di una critica che raramente si accorse del valore della nostra commedia, se non quando, decenni dopo, cominciò a rimpiangerla. Risi ha spesso citato, tra i suoi "antenati", René Clair e i grandi americani, da Lubitsch a Wilder. Ma non ha mai nemmeno dimenticato quello che probabilmente fu il nume tutelare della commedia all’italiana, prima di Castellani ed Emmer (ai quali si fa risalire la prima virata del neorealismo verso il colore rosa): Vittorio De Sica che, ha detto Risi, "ha fatto il genere leggero e poi dei film molto belli e importanti, dove non ha mai mancato però di segnare con il gusto dell’ironia e della caricatura le situazioni comiche inserite in un contesto drammatico". E fu proprio De Sica a sovrintendere a due dei primi film diretti da Risi, nel 1955, Pane, amore e Il segno di Venere, in veste di attore, certo, ma probabilmente anche in veste di sornione maestro di vita e di cinema. Poi, per Risi come per la commedia, il percorso fu naturale. Dopo la bonomia con cui osservava i giovani romani del ciclo Poveri ma belli, uno a uno cominciarono a delinearsi i mostri, il mattatore prorompente Vittorio Gassman e Alberto Sordi, propenso all’inchino, l’insinuante Tognazzi e il piccolo-borghese Manfredi. Risi, nel bene e nel male, ha seguito tutta l’evoluzione della commedia, con un occhio benevolo per le donne, una vigorosa apertura polemica (In nome del popolo italiano, 1971) e una probabilmente inevitabile deriva "sexy" (Vedo nudo, 1969, Sessomatto, 1973). E nel 1974 ha diretto un film tra commedia e dramma di una misura e un’amarezza di stampo "americano", Profumo di donna, che infatti gli americani non si sono lasciati sfuggire e hanno rifatto, quasi letteralmente, vent’anni dopo.
Da Il Sole 24 Ore, 4 agosto 2002
Il regista di tante commedie amare ha una passione per i guantoni. Perché il pugile è l'uomo offeso. Perché è uno sport nobile e mascalzone che può salvare dalla fame.
Dino Risi lo sa: gli uomini sono deboli, ingiusti, veri. Fanno errori e sbagliano virtù. Perdere è un modo di apprendere. Per questo ama boxe e ciclismo. Due sport nobili e mascalzoni che spacciano vite e sono serviti all'Italia per rialzarsi dalla miseria. E per gridare al sorpasso. Come scrive James Ellroy: «La boxe è un mondo di grande fatica e dolore, è selvaggia e melanconica». Risi legge racconti di pugilato, guarda gli incontri, commenta. È curioso, intelligente, sentimentale. A fine dicembre avrà 92 anni, i suoi ring hanno memoria. «È stato mio zio Felice a farmi innamorare della boxe. Vivevamo a Milano. Avevo dieci anni e mi portò con lui: la sala, il ring illuminato, due che si picchiavano. Tutto era perfetto.
Avevo zii strani, mia madre era l'ultima di cinque fratelli. Felice era un anarchico, aveva combattuto in Grecia per la rivoluzione, Antonio era avvocato e inventore, un bel tipo, scoprì una lozione per far ricrescere i capelli, la provò su una vecchia zia, che rimase calva. Cesare era architetto, Guido. molto silenzioso, era tornato dal Sudamerica con una scimmia che scappò nei mercati di Milano».
A molti vedere due che combattono non piace.
«Io ne rimasi affascinato. Non c'è cattiveria sul ring, e se c'è ha regole. Provai anch'io a boxare. Mio cugino Idalo mi diede i guantoni, anzi ce li dividemmo, io ebbi il destro, lui il sinistro, feci lo spiritoso, non sapevo che fosse mancino. Mi menò, anzi andai ko. Anche Walter Chiari provò il pugilato e si ruppe il naso. Una fortuna, perché con il naso storto migliorò il suo aspetto e diventò più simpatico».
La passione per la boxe ha resistito?
«Sì. Anche se aveva un concorrente, il mago Dantes. Si esibiva al Teatro Lirico, a me piaceva soprattutto la ragazza che lui taglia va a pezzi. Lei si metteva a piangere, era bellissima. Nel '39 al Vigorelli vidi Marcel Cerdan contro Saverio Turiello. Era una forza. Chi poteva immaginare che dieci anni dopo sarebbe morto per raggiungere Edith Piaf. Doveva andare a New York in nave, lei gli mandò un telegramma: "Non vivo senza di te", lui per fare prima prese l'aereo che cascò sulle Azzorre. Un altro che mi piaceva era Mario D'Agata, sordomuto, che diventò campione mondiale dei pesi gallo, un grande incassatore, era figlio di un maresciallo, era vissuto in collegio fino a 18 anni. E Carletto Orlandi di Porta Cicca, re dei leggeri. La boxe regala storie dove c'è tutto, forse troppo. Io Tyson l'ho sempre trovato fragile e ingenuo».
Tyson le fa tenerezza?
«Si, mi sembra una bestia in gabbia. Da sempre. Un ragazzo perso, che sta dalla parte sbagliata del mondo e ne soffre. Quel morso all'orecchio di Holyfield, solo un bambino può fare una cosa così feroce. C'è dolore, pazzia, disperazione. Sentimenti che rispetto, forse perché, dopo aver studiato medicina, ho rischiato di diventare psichiatra, ma dopo un esperimento di sei mesi al manicomio di Voghera ho capito che non era per me. Non c'era ancora stato Basaglia. Mio padre era un dottore bravissimo, medico del Teatro alla Scala, dove io ho avuto una carezza da Toscanini. Ho pure suonata il violino da piccolo, ma ero un cane».
I pesi massimi però non la convincono.
«Non amo gli armadi, i cazzotti che fanno molto male. Primo Carnera ha fatto più comodo a Mussolini che a se stesso. Salvo Cassius Clay, io lo chiamo ancora così, perché garantiva il ko. E Rocky Marciano, perché non si è mai fatto battere. Non c'è niente da fare, in America la boxe è l'America. I pugni sono stati lo sport della nuova frontiera, si combatteva fuori dai saloon, dalle miniere, accanto alla ferrovia in costruzione. Il ring è il loro western. Un modo per chi nasce povero di entrare nel mondo dei ricchi».
De Niro pugile l'ha convinto?
«Sì, bravo attore, sanguinava bene. In Toro Scatenato era anche ingrassato come un bue. Per carità, molto convincente e realistico. Però mi viene sempre in mente il commento di Laurence Olivier durante le prove di Il maratoneta. Dustin Hoffman doveva dirgli una battuta all'aperto e Olivier lo vede che scompare per fare due chilometri a piedi e poi tornare quasi senza respiro. "Ma che hai fatto?" gli chiede. "Beh, mi alleno da maratoneta", risponde l'altro. E Olivier: "Ma invece di farti il fiato, perché non provi a recitare?"».
Il ring è crudele.
«Anche recitare è duro. Bisogna fare uno sforzo fisico che svuota. E poi c'è la vecchiaia. Il pugile perde le gambe e i riflessi, l'attore perde la memoria, l'attrice la bellezza. Ricordo Amedeo Nazzari che negli ultimi film non si ricordava più nulla, e allora nel campo e controcampo, avevamo attaccato dei bigliettini sull'orecchio dell'altro, in modo che lui potesse leggerli. Ho apprezzato anche Jon Voight nel Campione. Il tramonto è terribile, nessuno ti riconosce più, nemmeno tu».
La chirurgia estetica non funziona nello sport.
«No, anche se la nostra società è in preda a un imbellimento generale. Nessuno vuole più essere vecchio, tutti preferiscono diventare pagliacci da circo, mentre invece bisognerebbe morire a 80 anni. Vedere attrici rifatte è imbarazzante, ma anche guardare Clay adesso, paralizzato, è molto penoso. Penso anche a Vittorio Gassman che veniva a trovarmi, andavamo a passeggiare allo zoo, visto che io abito proprio davanti. Vittorio si fermò davanti à una gabbia dove una scimmia, seduta su un blocco di cemento, stava lì immobile a guardare per aria. "Quello sono io", mi dice. Era già malato di depressione. L'ho anche diretto in uno spot pubblicitario di trenta secondi, aveva solo una battuta, ma era preoccupato, allora lo tranquillizzo, mettiamo il gobbo, così puoi leggere la frase. Lui, che era un mostro della memoria, capace di ripetere un articolo di giornale senza sbagliare una virgola. E alla fine Gassman è venuto vicino a me e con timidezza mi ha chiesto "Come sono andato"? Lui, che aveva quarant'anni di cinema alle spalle. Come sono andato?».
Lei è il regista di I mostri.
«Dove c'è un episodio su un pugile suonato e il suo manager. Perché, appunto, nella boxe c'è l'uomo offeso. Oggi invece vedo mostruosità quotidiane ovunque. Uno capace di scrivere bene di pugilato è stato Norman Mailer. Anche se io preferisco sempre chi fa e non chi pensa, sono insomma contro certi intellettuali che cercano il sangue per sentirsi vivi. Se sono stato vicino alla boxe lo devo anche a un mio amico irlandese, ex pugile, poi organizzatore, che mi ha invitato agli incontri. Quel mondo lì l'ho conosciuto anche grazie ai libri di Budd Schulberg. E con mio fratello, Nelo, il poeta, ogni tanto ne parliamo. Senza dimenticare il ciclismo, Giro e Tour, dove ogni giorno vedi la fatica, che oggi chiamano stress. Non mi perdo una tappa e sogno di esserci anch'io su quelle due ruote. Passo mesi su Alpi e Appennini». In fuga.
«S3: Avrei amato essere Cary Grant, ma devo ammettere che Bartali aveva la faccia dell'attore e Coppi quella della tragedia. E sono stati loro due a portarci fuori dalla guerra e dalla miseria. Bella volata, altro che sorpasso».
Da Il Venerdì di Repubblica, 28 febbraio 2008
«La politica è un mostro che ti divora, il potere è una cosa orrenda: non invidio chi ha le guardie del corpo, penso sia un vero incubo essere sempre seguiti e spiati. I politici sono tutti grandi attori. Sul palcoscenico della storia sono arrivati soltanto personaggi in grado di incantare il pubblico, i popoli, le donne. Da Napoleone a Hitler, i loro atteggiamenti, le parole, le smorfie, perfino i loro tic sono diventati modelli da imitare, da copiare e infine da disprezzare. Mussolini conquistò l’Italia prima con la politica e poi con le sue burattinate, come ha fatto anche un altro. Attenzione, però, lo dico ai soliti che ora scappano dalla nave che fa acqua, a quelli che giocano a nascondino, che passano da una camicia all’altra in fretta e furia. Attenti a non dare per sconfitto troppo presto Silvio Berlusconi. Siamo ancora al secondo atto. Potrebbe anche rivoltare la frittata, fare soltanto cose giuste, cambiare la sua faccia, drammatizzare la sua espressione, riflettere, capire, ascoltare di più, usare il pianto greco e tornare fra un anno vincitore. L’ho conosciuto qualche anno fa, invitò alcuni di noi, ricordo che c’erano anche Age, Scarpelli, la Wertmuller, a cena in un palazzo di via Giulia. Alla fine del pranzo, Confalonieri si mise al piano e lui iniziò il suo repertorio di canzoni francesi, la migliore fu La vie en rose, mi pare che cantasse mica male, ricordava un certo Tino Rossi, uno coi capelli leccati che aveva un certo seguito negli anni Quaranta e Cinquanta. Alla fine, per scherzo, andai e gli diedi diecimila lire, “per l’orchestra”. Lui non fece una piega, ringraziò, spezzò in due la banconota e ne diede un pezzo all’amico Fedele.»
Da trent’anni, Dino Risi abita in un residence, un piccolo appartamento ai Parioli, affacciato sulle voliere del Bioparco, il giardino zoologico dei romani. Una scelta che difende con entusiasmo, «vivo come in albergo, senza pesare su nessuno. Ho perfino imparato a dialogare con l’acqua e con i suoi rumori: sono felice delle mie giornate, non mi sono mai sentito solo. Qui, è vietato affittare a chi ha bambini o cani, una meraviglia. Al di là degli acciacchi, finalmente parlo per ore con i miei figli Claudio e Marco: pensando che stessi per morire, hanno inaugurato l’abitudine di passarmi a trovare ogni mattina, passeggiamo insieme e forse non sanno che questa è ormai la mia vera e unica ragione di vita. Lo scriva. Sa, dicono tutti che sono un cinico, un duro, un uomo di ghiaccio. Mi sto sciogliendo, piano piano. Se fosse stato per me, sarei morto volentieri nel 2000, una bella data da incidere sulla lapide. Ho ripiegato, anche per un antico patto stipulato con l’amico Bernardino Zapponi, sulla scelta del luogo. Quando sarò al lumicino, voglio essere portato a finire in quel di Waterloo, in Belgio. Sono stato a vedere la tristissima pianura dove l’Imperatore fu sconfitto, non è un granché. Ma la prego di immaginare che bella figura farei io, ateo non pentito: “Dino Risi, nato a Milano, morto a Waterloo”». Arnaldo Risi, il padre di Dino, era uno dei medici più importanti di Milano. Aveva in cura il Benito Mussolini, giornalista e direttore del «Popolo d’Italia», ed era il medico ufficiale della Scala. «Mi portava nei camerini delle cantanti e io impazzivo di gioia. Adoravo il profumo delle donne fin dall’età di tre anni, quando mia madre mi faceva dormire con una cameriera e io toccavo, annusavo felice. Ricordo come fosse oggi, però, l’abbraccio della cantante lirica Toti Del Monte: puzzava di cipria e sudore, uno schifo. A scuola, ero un ribelle. Una volta, portai perfino una gallina in classe. Feci il ginnasio e il liceo al Berchet. Da ateo, ero esonerato dalla lezione di religione, potevo entrare più tardi e saltare la prima ora, ero invidiatissimo. In famiglia, un nonno era stato con Garibaldi e l’altro, il nonno Risi, segretario di Mazzini: a sei anni mi definii “un libero pensatore”, dovevo averlo sentito dire da qualcuno degli amici socialisti dei miei. Da adulto, ho sempre avuto un rigetto per la politica. Non la capivo, se non come un grande spettacolo...». Famiglia antifascista, uno zio – Guido Mazzocchi, fratello della mamma Giulia, pittore divisionista – fu incaricato dai fuoriusciti di portare da Parigi a Roma una valigia contenente una cintura di esplosivo «destinata al primo kamikaze, tale Sbardellotto, che doveva farsi esplodere al passaggio di Mussolini. Zio Guido finì arrestato a Regina Coeli», di lui il regista preferisce ricordare «le modelle bellissime, la gelosia di sua moglie valdese che, un giorno, si avventò con un coltello su un quadro». Il ragazzo rimane orfano di padre a dodici anni, sua madre cresce lui e i suoi fratelli Nelo e Mirella aiutandosi con le traduzioni e riuscendo a farli studiare. «Mi laureai in Medicina, volevo specializzarmi in Psichiatria. Dopo sei mesi al manicomio di Voghera, lasciai perdere. Avevo voglia di non far niente, di essere ricco e di girare il mondo. Ci sono riuscito, ho fatto il mestiere più bello del mondo, negli anni giusti: noi della commedia all’italiana avevamo sette, otto produttori che ci si litigavano, rilanciando proposte e ingaggi milionari. Capii subito che sarebbe stata una goduria quando Carlo Ponti ricomprò a due milioni un documentario che avevo prodotto da solo e che mi era costato duecentomila lire in tutto. Si chiamava Buio in sala. Ponti mi chiamò a Roma, per darmi personalmente l’assegno. E io non avevo neppure un conto
corrente in banca. Era il 1950, dormivo in una pensione spaventosa, ma la fase eroica durò poco. Avevo scritto battute per il “Marc’Aurelio”, la rivista satirica che faceva la fronda al regime alla fine dei Trenta, ritrovai molti frequentatori della redazione in giro per Roma, avevo qualche collaborazione. Ponti si ricordò che ero medico e mi chiese di sceneggiare Anna, un film destinato alla Magnani, la storia di una donna che si fa suora in seguito a una delusione amorosa e poi ritrova in ospedale il suo antico fidanzato. Il regista era Lattuada, con Berto e Brusati andammo a sceneggiarlo alla Maga Circe, un paradiso di scogli sul mare, deserto, del Circeo. Ma alla fine la parte andò alla Mangano. De Laurentiis, che si era appena messo con lei, la impose al socio Ponti dicendo: “Questa parte è per Silvana”.»
Al debutto, nel 1956, con Poveri ma belli, Risi è acclamato. Ma il suo capolavoro, Il sorpasso è del 1962. Nell’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta, «nel nostro ambiente, erano tutti comunisti o socialisti: per paradosso, potrei dire che era il modo migliore per farsi corteggiare dai nemici democristiani. Nel Pci militavano De Santis, Visconti, Lizzani. Socialisti erano invece Monicelli, Age, Scarpelli. Era un gioco delle parti, un po’ come adesso. Tutti tenevano il piede in due staffe. Stili di vita da capitalisti, cuore a sinistra e portafoglio a destra: essere all’opposizione conveniva. Ricorda che perfino l’avvocato Agnelli, da gran furbo, strizzava l’occhio ai sindacalisti, a Luciano Lama? Fingeva di essere amico degli avversari e intanto faceva far carriera, nei partiti moderati, a sua sorella Suni. lò non sòno mai stato né comunista né democristiano, ho votato per i repubblicani, i socialisti, poi per il Partito socialdemocratico. Quando, con Pietro Germi, ci siamo azzardati a elogiare Saragat, le teste pensanti del cinema ci hanno messo in quarantena, in punizione. La verità è che il Sessantotto prese di sorpresa i grandi intellettuali, gente che passava le vacanze a Capri o in Versilia e le serate nelle belle case a giocare ai mimi: diventarono tutti più realisti del re, volevano cambiare il mondo, io li trovavo ridicoli. Faceva eccezione una persona meravigliosa: Antonello Trombadori, il comunista meno comunista che ci sia stato, teneva il filo tra il Pci e il cinema con un’ironia indimenticabile, per fortuna».
Risi esibisce come una medaglia la sua distanza dai palazzi del potere, «forse ho incontrato una volta o due Andreotti e ho stretto la mano al presidente Ciampi, pensando: “Poveraccio, quante mani dovrà stringere?”». Di Bettino Craxi ricorda con ironia «quel sei meno meno che gli diede Moana Pozzi nella sua autobiografia erotica. La ragazza venne a trovarmi, era seduta dove ora è lei, dovevamo fare un film per Cecchi Gori. Assolutamente non stupida». L’anno prossimo, questo signore elegante, divertente, cinico per divertimento e duro per antica educazione laica, supererà i novanta. Eppure, non vuole smettere di giocare. Del nuovo papa Benedetto dice, «sul piano teologico non saprei, non ho la competenza. Ma, come regista, non l’avrei mai scritturato. Non ha la faccia da papa, come hanno invece i cardinali Ruini e Martini. Se un mio aiuto regista mi avesse portato Ratzinger, per il ruolo di pontefice, l’avrei licenziato in tronco»
Da Registi d’Italia, Rizzoli, Milano, 2006
Quando Dino Risi cominciò a occuparsi di cinema, era laureando o già laureato in medicina. Cominciò come mio assistente, insieme a Lattuada e a De Caro, nella lavorazione di Piccolo mondo antico. Dino Risi possedeva tutte le qualità per avere successo, sia come medico sia come regista. Ma già allora, nella sua giovanile presenza, non meno di oggi, nel suo raggiunto successo e nel talento indiscutibile e sempre più sicuro, c'era qualche cosa di inerte, di muto, di misterioso.
Era un ragazzo alto, snello, di pelle olivastra e dai capelli scuri e naturalmente ondulati e lucidi, o piuttosto ricciuti con mollezza: aveva occhi grandi, marroni, lievissimamente sporgenti, dolcissimi: dolcissimo, anche, era il suo sorriso, specialmente quando si rivolgeva a una bella ragazza: le mani erano nervose e delicate: e parlava invariabilmente sottovoce, peggio di Pellini: e conservava, almeno in apparenza, una imperturbabile serenità, una perfetta gentilezza di modi.
Ora, i miei difetti più gravi (gravissimi poi per un regista mentre lavora) erano proprio quelli di parlar forte e di non sembrare calmo: calmo lo ero, ma soltanto dentro me stesso: al contrario, dunque, di Risi. Per questo la calma di Risi e, ancora di più, il suo ostinato parlar sottovoce parevano fatti apposta per irritarmi e addirittura per esasperarmi. Erano qualità che gli invidiavo troppo. Gliele invidiavo specialmente nei rapporti con le ragazze. Niente indispone le ragazze come un bercione irrequieto. Tuttavia, Risi non m'irritava: neanche un po'. Se udivo il suo sottile sussurro, mi bastava cercare con gli occhi il suo sguardo: vi vedevo tanta semplice bontà e simpatia, che mi arrendevo subito. Bino Risi apparteneva, certo, ai «sussurranti», razza costituzionalmente avversaria di quella dei «bercianti», cioè della mia: ma non era, o non era soltanto, un astuto: era un uomo umano e «qui avait quelque chose dans le ventre».
Da una decina d'anni a questa parte, Risi ha dato la prova di saperci fare. I suoi film più riusciti, li conosciamo e li sappiamo a memoria. Ma mancherei verso lui di quella sincerità, che gli devo proprio perché gli voglio bene, se nascondessi quel senso di strana insoddisfazione che tutte le pellicole da lui dirette, anche le migliori, mi hanno sempre lasciato. Insoddisfazione strana: ogni volta, ci pensavo e ripensavo senza riuscire a oggettivarla criticamente. Ripercorrendo mentalmente le sequenze del film e il modo che Risi ha di girare, così vivo, morbido, pronto, aderente all'argomento, tutto mi pareva perfetto: allo stesso tempo, tutto mi pareva un po' grigio e un po' inutile, tanto da farmi desiderare qualche grosso errore, qualche madornale difetto, ma anche il compenso di qualche straordinaria bellezza: il cosiddetto pugno nello stomaco, che Bino non da mai e si guarda bene dal dare!
Sono andato, l'altra sera, a vedere Il gaucho, l'ultimo suo film: proprio con l'intenzione di riuscire a scoprire la chiave del mistero. E devo dire, sono stato accontentato, perché Il gaucho è, tra tutti i benissimo girati film di Risi, forse il meglio girato di tutti: ma, anche, il meno soddisfacente. Badate, il caso è bizzarro: e vale la pena di studiarlo. Si vede il film senza un istante di noia, si ammira l'assoluta vivezza della ricostruzione ambientale italo-argentina (il mondo dei nostri emigrati là, ricchi e poveri, antichi e recenti), si gode l'altrettanto assoluta esattezza della ricostruzione verbale romanesco-cinematografara (la piccola troupe dei cineasti che vanno in Argentina per un festival), si crede ai personaggi, si crede alla storia, si sorride, si ride, perfino ci si commuove. Con tutto questo, quando si esce dalla proiezione, ci si sente così depressi che viene voglia di piangere, e si ha l'impressione di aver buttato via la sera. Personalmente, uscendo dall'Apollo, ho attraversato piazza Liberty con il cuore stretto. Avrei fatto non so che cosa per liberarmi da quell'uggia. Ho pensato, allora, che l'unico rimedio era di approfittare proprio dello stato d'animo, in cui lo sco-raggiante Gaucho mi aveva gettato, per cercare di indovinare Bino Risi.
Ecco, mi sono detto, cominciamo dalla prima cosa che salta agli occhi. Questo film è vero. Veri gli ambienti, quello della stanza d'albergo, quello della villa del miliardario, quello del porto sul fiume e delle case semidiroccate dove si parla genovese: veri gli ambienti, tutti nel loro squallore, nella loro volgarità,
nel loro cattivo gusto, nella loro ricchezza pacchiana, o nella loro disperata povertà. E veri i personaggi, verissimi: la diva provinciale al tramonto (interpretata con perfezione ineguagliabile dalla Pampanini, e non sai se ringraziare lo spirito di lei, o una segreta e vellutata malignità di Risi); e le due attricette sciocche e vanesie; e Gassman cinico, faccendiere e qualunquista; e Nazzari, nella parte del grande industriale italo-argentino, vero come un documentario; e la moglie di lui... L'unico che non è all'altezza, guarda caso, è l'attore che, en prìncipe, dovrebbe essere il più bravo di tutti: Manfredi, che, per la prima volta, lui di solito così contenuto e quasi spento, fa troppo. Anche questo, dentro il mistero di Risi, costituisce un altro piccolo mistero. Chissà che non serva a spiegarlo.
Ma dunque, se tutto è così vero, perché il film deprime? Forse proprio perché è vero? Abbiamo infiniti esempi, in tutte le arti, di opere vere e anche tristissime, ma insieme esaltanti. Evidentemente, non basta fare vero. Occorre che il regista, mentre fa vero, faccia anche (rendendosene conto o anche istintivamente, senza rendersene conto) un vero profondo, un vero significativo di una verità più duratura e più universale dì quella che i fatti minuti, per quanto accuratamente ed esattamente ricreati, suggeriscono. D'accordo, i personaggi, gli ambienti, gli episodi che Dino Risi racconta, nel Gaucho e così negli altri suoi film, sono personaggi ambienti episodi triti, banali, squallidi: verissimi. Ma non c'è, nel regista, nonostante
tutta la sua bravura, abbastanza coscienza, o abbastanza dolore, o abbastanza indignazione, o abbastanza divertimento per questo tritume, per questa banalità, per questo squallore. Sembra che l'autore gentilmente si inchini verso la realtà e la accetti, supinamente e, quello che più conta, senza neanche accorgersi di accettarla. Lui la rifa com'è, e basta: gli basta. Ma pensate un momento che cosa succederebbe se, di colpo, Dino Risi, si accorgesse? Tutto acquisterebbe un'improvvisa sonorità, come l'inserimento di un pedale: tutto s'inquadrerebbe in una fulminea prospettiva, come le fotografie doppie quando si guardano nell'apposito apparecchio. Parlo, naturalmente, al figurato. Perché, in pratica, forse, si tratta proprio del contrario. Dino è sempre preciso, chiaro, definito. Dovrebbe, forse, sfumare di più, accennare, tentare... È il segreto stesso dell'arte e dell'amore. Quando si sente qualcosa, il primo segno è questo: uno se ne vergogna, e ne parla a fatica.
È probabile che Manfredi, attore ultra-sensibile, abbia avvertito questa eccessiva chiarezza di propositi, e la conseguente indifferenza, e mancanza di echi e significati più vaghi e più vasti... La dolcezza suasiva di Risi, è probabile che lo abbia paralizzato.
Auguriamo a Dino di tirarsi fuori, una buona volta! Di girare sbagliato, magari: ma di approfondire, anche al costo di sballare tutto, la propria ispirazione. Un regista del suo talento, perché non deve dirci qualcosa di più? Urli, perdio, si agiti: esca da se stesso e dalla sua sorridente serenità.
Il suo problema, in ogni caso, è interessante perché è anche il problema di tanto realismo moderno, in letteratura come in cinema. Il vento dell'astrattismo non è ingiustificato.
18 ottobre 1964
Da Cinematografo, Sellerio Editore, Palermo, 2006
«In Italia guai se non riesci simpatico. Io non ho fatto niente per diventare simpatico»: questa orgogliosa autocritica definisce perfettamente l'ex psichiatra che un giorno, durante la guerra, scopre il cinema e vi porta un bagaglio di cinismo e di ironia. Non simpatico e, all'occorrenza, cattivo. Comincia con documentari tutti bonarietà prima di passare al lungometraggio, con temi divaganti ma già maligni ( Il segno di Venere, 1955, con Franca Valeri sulla graticola) e sfacciati (Poveri ma belli, 1956, storia di giovani bulletti che pensano di avere il mondo in pugno). Esita all'inizio, e mostra capacità di analisi non comuni: da Alberto Sordi estrae anzitutto un personaggio ignobile di grande rilievo (Il vedovo, 1959) e poi un ritratto di italiano «antitaliano» a tutto tondo (Una vita difficile, 1961), per uno dei film più tetri, nella sua comicità «forzata», dell'intera carriera dell'autore; da Vittorio Gassman, reduce dai monicelliani ghirigori comici di I soliti ignoti e La grande guerra, spreme un personaggio di arrivista di periferia destinato a entrare nella storia del cinema, per la precisione del contesto sociale in cui è inserito (Il sorpasso, 1962); dallo stesso Gassman e da un impareggiabile (come sempre) Ugo Tognazzi ricava quelle che sembrerebbero macchiette (I mostri, 1963) ma che sono in realtà frammenti appena un poco esasperati di normale antropologia italiana. Esercitazioni simili, più o meno felici ma tutte maligne e sovente feroci al limite della satira, le compie sulla pelle di Nino Manfredi (Operazione San Gennaro , 1966, Straziami ma di baci saziami, 1968, Vedo nudo , 1969), di Mastroianni, di Giannini e più volte - recidivo soddisfatto - sui tic e la sbruffoneria del sempiterno Gassman, nonché del sin troppo disponibile Tognazzi, giullare dimesso di molta simpatia. L'antipatico Risi, manipolatore attento di storie e storielle, attraversa periodi felici e periodi fiacchi, perché gira troppo e confonde le carte (tra riflessione, sberleffo, barzelletta, farsa, ricerca), ma riesce spesso a pungere dove è necessario e a fornire - anche nei prodotti più tardi (come Mordi e fuggi, 1973) o fuori registro (Tolgo il disturbo, 1990, geniale interpretazione di Gassman) - una testimonianza veritiera sul paese in cui gli tocca vivere.
Fernaldo di Giammatteo, Dizionario del cinema. Cento grandi registi, Roma, Newton Compton, 1995
Mentre mi accingo a scrivere queste righe, immagino la gente che si affretta alla “Casa del cinema” di Roma per preparare l'omaggio a Dino Risi (un omaggio rigorosamente “laico”, si sono premurati di scrivere i giornali per evitare che si possa pensare che il congedo da Dino preveda qualcosa di religioso) e l'immaginare mi fa sentire crudelmente l'estraneità a quel che sta succedendo a Roma e in pari tempo l'intensità del rammarico, e vorrei dire del dolore, per una scomparsa che era nell'aria e a cui, come sempre capita nella vita, è difficile arrendersi. Sono venuto via da Roma, dopo un quarto di secolo di permanenza, nel 1995 quando Risi era ancora un vigoroso ottantenne che illustrava la sua fiammante giovinezza da tutti lodata e celebrata. In tanti anni di RAI gli avevo dedicato diversi omaggi, fra cui un ciclo per “Cinema di notte” intitolato goliardicamente “In Dino veritas”, ma non avevo avuto vere occasioni di conoscerlo bene (sempre rinserrato nel mio ufficio di Viale Mazzini, avevo poche occasioni per concentrarmi sulla complicata mondanità relazionale su cui riposa metà della vita sociale del cinema italiano). In realtà io fui invogliato nel 1992 da una richiesta di Oreste De Fornari, che voleva celebrare con un libro il trentennio de “Il sorpasso” (1962). Fra le varie ipotesi che io feci vi fu anche quella di scrivere una novella che riproponesse il carattere del famoso gangster de “Il bacio della morte” Tommy Udo, interpretato dalla rivelazione Richard Widmark. Il racconto si intitola, appunto, “Lo sguardo di Tommy Udo” e presumo si riallacci alla sfacciataggine urlante e incongrua tipica del protagonista del film di Risi, a cui la novella piacque molto. Da quel momento diventammo amici, vaga ma costruttiva relazione che mantenni anche quando le 1995 tornai a stare a Genova. Gli telefonavo spesso. Io chiamavo da Genova e lui da Roma mi parlava di sé con un signorile abbandono, come un patrizio intento a lasciarsi andare con il simpatico intendente delle terre. Con quella sua incredibile voce alla Gianni Agnelli mi diceva spesso: “Chiamami, perché parlare con te mi diverte”. E io gli davo retta. Da qualche tempo esitavo a chiamarlo, perché sentivo nella sua voce e vedevo nelle foto che ogni tanto apparivano di lui sui giornali i segni feroci di una vecchiezza subitanea, che gli era caduta sul volto come un'infezione. E a forza di esitare, mi sono trovato davanti al televisore che annunciava la sua morte. Mi dispiace di non aver spinto l'amicizia sino ad una fattiva collaborazione. Avevo già preso gli accordi per installarmi da lui e dar vita ad una lunga intervista filmata, in cui l'ironica e sprezzante fermezza con cui Dino guardava non solo il cinema ma la vita (basta leggere i suoi numerosi libri di aforismi) potesse avere risalto senza essere guastata dalla pesantezza arrogante dei critici. Intanto pensavo a riunire in un volumetto tutto quello che ho scritto di lui (anzi un volumone: non ci sono solo le recensioni, ma anche i libri, soltanto i sei pezzi che ho scritto per “Il segno di Venere” occupano ventidue pagine). Non l'ho mai fatto e forse non lo farò mai, ma qualcosa per testimoniare il mio affetto e la mia stima professionale devo riuscire ad immaginarlo. A Roma tutti quelli che (come dice Luciano Vincenzoni il quale lo sentiva tutti i giorni) non l'hanno mai chiamato al telefono una sola volta, adesso si danno da fare per essere inquadrati alla televisione, mentre secernono forzatamente dolore. Intanto voglio cominciare a pubblicare sul mio Blog quello che ho scritto di lui nel corso di tanti anni, e poi vedremo…
Nel frattempo vorrei congedarmi da lui citando uno dei suoi infiniti epigrammi (questo è tratto da “Vorrei una ragazza”):
“A cosa somiglia?
Al buio?
Al silenzio?
Al mare?
Oppure
alla gomma da cancellare?”.
Caro Dino, caro Dino. Sentirò la mancanza…
da Emme - Modena Mondo, 18 giugno 2008