«Sono nato a Namur. Non so cosa ci sia in me di specificamente belga, però non sono francese, mi sento come a cavallo di due culture. Se volete mi sento un provinciale. Lasciare la provincia per andare in città rappresenta sempre un grande sforzo...». Il belga-francese Lucas Belvaux (Namur, 1961) scopre il cinema a scuola: il padre, amministratore di un collegio, programma un film tutte le settimane: «Erano film di genere, western, commedie, gialli» ricorda Lucas, «ai film di cassetta si alternavano i classici, l'idea di diventare attore mi venne molto presto, anche se non posso certo definirmi un cinefilo stile Cahiers du Cinéma. L'idea di fare il regista mi venne solo dopoché cominciai a fare l'attore, prima non ci avevo mai pensato».
A Parigi a diciassette anni, Lucas segue dei corsi di teatro, e quasi subito si trova su un set: Boisset (Allons s'enfants), Goretta (La mort de Mario Ricci) Losey (La truite), Rivette (Hurlevent), Assayas (Désordre). «Curiosamente mi hanno affidato dei ruoli di protagonista fin dai primi film» ricorda Belvaux «a parte una breve comparsa nel film di Losey. Debbo riconoscere che erano tutti dei ruoli interessanti. In genere ho lavorato con dei registi congeniali. Il più impressionante fu forse Rivette, era molto stressato anche a causa della malattia di Truffaut. Per Rivette è molto importante il momento delle riprese, dunque punta tutto su quel momento capitale e non è sempre necessariamente facile per l'attore. Subito dopo sono entrato nella famiglia Chabrol, e fu un cambiamento radicale: Claude è molto cordiale, diretto, ti mette subito in confidenza. Sa perfettamente quello che vuole, prende per mano gli attori e li conduce dove vuole senza però dare mai l'impressione di "dirigere". Anche quando fa dei piani sequenza (la specialità di Rivette) tutto diventa facile perché ti spiega con grande chiarezza come girerà la scena: anche se il piano sequenza è complicato da realizzare, non c'è sul set nessuna angoscia. Come riesca a padroneggiare la tensione è un miracolo. Con Chabrol ho fatto due film: Poulet au vinaigre (1985) e sei anni più tardi Madame Bovary (1990). È stata un'esperienza molto importante per me».
Dopo una dozzina di film (lavora anche con Missiaen e Zulawski), Lucas Belvaux si è conquistato una discreta fama come attore sensibile, talentuoso ma discretissimo. A trentunanni, nel 1991, l'attore di Namur si lascia tentare dalla regia. Senza frequentare corsi né fare da assistente a nessuno («il linguaggio cinematografico l'ho imparato guardando i film»), esordisce nel lungometraggio con una storia malinconica di due giovanotti innamorati della stessa ragazza, una splendida rossa che ama un altro e li considera solo dei copains. Parfois trop d'amour (1991) esce nelle sale in ritardo, solo dopo il successo di scandalo di C'est arrivé près de chez vous, diretto dal fratello di Lucas, Rémy Belvaux e da due complici (André Bonzel e Benoît Poelvoorde). Il successo arriva con il secondo film Pour rire! (1996), un vaudeville burlesco pieno di charme. Si ride di gusto seguendo le disavventure di due uomini menati per il naso dalla capricciosa Alice (Ornella Muti; il personaggio dell'avvocato Nicolas Gardinier, che tenta disperatamente di ricuperare l'affetto della moglie adultera, è interpretato da Jean-Pierre Léaud). «L'interesse per i personaggi, il modo molto fisico di filmare gli attori in azione ci sorprende e coinvolge» scrive Jacques Siclier. «Credo al ritorno del vaudeville» ci dice l'autore. «Ci sono momenti in cui la gente rifiuta un genere, ma poi riprova il piacere di riscoprirlo, il vaudeville mi ha sempre interessato».
Pour rire! piace. Incoraggiato dal successo, Lucas si getta in un progetto estremamente ambizioso: tra il 2001 e il 2002 gira una memorabile trilogia. Il titolo dei tre film è ricavato - curiosamente - da una espressione corrente: Un couple épatant / Cavale / Après la vie. «Avevo voglia di fare tre film di genere diverso legati tra loro e in progressione drammatica. Si comincia con qualcosa di leggero e luminoso (Un couple épatant), poi si passa al noir, un noir rivisitato con un certo distacco (Cavale), e alla fine qualcosa di più intimo, un melodramma con dei risvolti umani più profondi (Après la vie). Fare tre film in contemporanea è come dipingere un grande affresco sul soffitto invece di un quadro da appendere al muro; non ho provato particolari difficoltà. Ognuno dei tre film ha la sua logica drammatica, la sua identità filmica. Diciamo che era un film particolare. Se ho deciso di interpretare uno dei ruoli, è solo per ragioni contingenti: ci voleva un attore belga».
La trilogia vince il Gran Prix France Cinéma 2004. La raison du plus faible, il nuovo thriller del regista franco-belga, ci offre un insolito, avvincente, acuto spaccato proletario della Liegi di oggi. Un film magistrale di grande forza drammatica sulla miseria ad altezza d'uomo.
Da France Cinema 06