Jim Jarmusch dà il via a una delle più radicali e influenti trasformazioni del cinema indipendente americano, inaugurando dagli anni Ottanta un modo nuovo di guardare il mondo, fatto di lentezza, comicità impassibile, personaggi erranti e un'attenzione quasi musicale al tempo.
Nato a Cuyahoga Falls nel 1953 ma adottato dalla Grande Mela, Jarmusch si forma tra letteratura, musica e cinema europeo, trovando inizialmente ispirazione nello sguardo distaccato di Wim Wenders, l'unico autore che, secondo lui, è stato capace di osservare persone e luoghi marginali con una calma che diventerà anche la sua cifra.
Con Permanent Vacation (1980) e soprattutto con Stranger Than Paradise - Più strano del Paradiso (1984), premiato con la Caméra d'or a Cannes, inaugura un percorso che rifiuta la narrazione classica e abbraccia un cinema costruito su atmosfere, tempi morti, incontri casuali e figure fuori posto.
Da Daunbailò - dove il nostro cinema è presente con Roberto Benigni - a Mystery Train - Martedì notte a Memphis, Taxisti di notte, Dead Man, Ghost Dog - Il codice del samurai, Coffee and Cigarettes, Broken Flowers e fino al recente Father Mother Sister Brother, Leone d'Oro, Jarmusch consolida il destino della sua cinematografia, basata su metodo che a sua volta si fonda sull'accumulo di piccole intuizioni, su episodi autonomi che si rispecchiano tra loro, su variazioni più che su trame, su un mondo aperto per tutti, senza frontiere, dove culture diverse si incontrano senza gerarchie.
Lo stile e i contenuti
Il suo cinema, spesso definito essenziale e meditativo, evita la progressione lineare della vicenda per avvicinarsi al tempo reale dello spettatore, tra sequenze silenziose, inquadrature statiche, dialoghi ridotti all'osso e humour deadpan.
Nei primi anni Novanta, sperimenta la forma a vignette con Mystery Train, Taxisti di notte e Coffee and Cigarettes, confermando una poetica che preferisce frammenti, micro-storie, deviazioni.
I suoi protagonisti sono viaggiatori solitari, outsider taciturni, piccoli delinquenti, poeti involontari, "mormoratori malinconici", come li definiva Paul Auster. Jarmusch stesso ha dichiarato che il suo processo creativo è guidato dall'istinto, dove deve ascoltare il film e lasciare che gli dica cosa vuole.
Un approccio che spiega perché opere come Dead Man o The Limits of Control abbiano diviso pubblico e critica, pur restando fedeli alla sua autonomia radicale.
Sebbene ambientati spesso negli Stati Uniti, i suoi film guardano l'America con lo sguardo di uno straniero. Jarmusch mescola tradizione europea, giapponese e pulp, inserendo attori e lingue diverse, e costruendo storie dove l'identità nazionale è fluida, casuale, mai un destino. Nei suoi lavori ricorrono quindi incontri tra culture lontane (il nativo che venera William Blake o il sicario afroamericano che vive secondo l'Hagakure) e un'irriverenza costante verso ogni forma di etnocentrismo.
La musica è un altro pilastro fondamentale del suo cinema. I suoi film hanno il ritmo del blues e del jazz, e musicisti come John Lurie, Tom Waits, RZA, Iggy Pop, Joe Strummer o Screamin' Jay Hawkins diventano personaggi, presenze, spiriti guida. Stranger Than Paradise - Più strano del Paradiso ruota attorno a "I Put a Spell on You", Mystery Train - Martedì notte a Memphis nasce da un brano di Elvis, Coffee and Cigarettes è un incontro continuo tra rock, rap e cultura pop.
Quindi, nel cinema di Jarmusch non troviamo un unico fil rouge ma dei «temi ricorrenti», come l'esistenzialismo e il senso di spaesamento, la solitudine degli outsider, la lentezza come forma di resistenza, la poesia del quotidiano, la musica come struttura narrativa, l'incontro tra culture, l'umorismo come difesa dal mondo.
Siamo davanti a uno dei più coraggiosi nomi del cinema contemporaneo, un autore che ha sempre difeso la propria indipendenza creativa, rifiutando compromessi industriali e costruendo un universo coerente, riconoscibile, libero.
Jarmusch è un cineasta che preferirebbe "girare un film su un ragazzo che porta a spasso il cane piuttosto che sull'imperatore della Cina" ed è proprio in questa scelta di umiltà, di attenzione al gesto minimo, che risiede la forza di un cinema che continua a parlare a generazioni diverse, senza mai perdere la sua voce.
Studi
Nato a Cuyahoga Falls, in Ohia, secondo tra i tre figli di una giornalista di spettacolo che scriveva per l'AKRON BEACON JOURNAL, e di un uomo d'affari della B.F. Goodrich Company, subisce fin da bambino l'incanto del cinema e del teatro anche grazie a sua madre, che lo aveva introdotto nei palcoscenici e nei cinema locali per rappresentazioni e matinée, questi ultimi principalmente horror (L'assalto dei granchi giganti, Il mostro della laguna nera, fino a Il contrabbandiere), mentre a casa non perdeva una puntata dell'eccentrico show "Shock Theater", presentato da Ghoulardi e che era il segmento introduttivo per la presentazione di cinquantadue film horror classici pre-1948 prodotti dalla Universal.
Lettore accanito di autori della controcultura (William Burroughs e Jack Kerouac su tutti) in adolescenza, frequenta bar e cinema locali con documenti falsi, spesso assistendo a spettacoli, film pornografici o underground (opere dirette da Robert Downey Sr. Come Putney Swope o da Andy Warhol come Chelsea Girls).
Diventato apprendista presso un fotografo commerciale, dopo essersi laureato nel 1971, si trasferisce a Chicago e si iscrive alla Medill School of Journalism della Northwestern University, dal quale però venne espulso perché non aveva seguito nessuna lezione di giornalismo, preferendo ascoltare quelle di letteratura e storia dell'arte.
A quel punto, si trasferì alla Columbia University, studiando letteratura inglese e americana sotto la guida di poeti d'avanguardia della New York School come Kenneth Koch e David Shapiro. Fu qui che Jarmusch cominciò a scrivere brevi brani astratti semi-narrativi, curando anche la rivista letteraria universitaria THE COLUMBIA REVIEW.
Con l'idea di diventare un poeta, durante il suo ultimo anno di studio accademico, si trasferisce a Parigi grazie a un semestre estivo in un programma di scambio, ma invece di rimanere solo sei mesi, prolunga la sua permanenza in Francia di altri quattro mesi, lavorando come fattorino per una galleria d'arte e passando la maggior parte del suo tempo alla Cinémathèque Française.
Tornato in patria, si laurea nel 1975 e rimane a New York per dedicarsi alla sua carriera di musicista, soprattutto dopo essere tornato a Parigi nel 1976. Poi viene accettato alla New York University Tisch School of the Arts, dove studia per altri quattro anni, entrando in contatto con studenti che diventeranno suoi futuri collaboratori o grandi autori del cinema americano (Sara Driver, Tom DiCillo, Howard Brookner e Spike Lee).
Alla fine degli Anni Settanta a New York City, Jarmusch mette su una band, i Del-Byzateens, ma soprattutto diventa aiuto-regista del re del noir americano Nicholas Ray, che in quel momento insegnava nel suo dipartimento. Il rapporto tra i due è conflittuale, ma significativo e di grande stima reciproca. Ray biasimava Jarmusch per le sue sceneggiature prive di azione, ma Jarmusch continuava a scriverle, inserendoci ostinatamente ancora meno azione, tanto che Ray cominciò a smettere di sottolineare quel tipo di scelte e a stimolare invece quello stile così atipico che il suo studente stava facendo emergere.
Quando però venne il momento di presentare un film come suo progetto finale, il risultato non impressionò la commissione universitaria che, di fronte al suo lavoro, si rifiutò di assegnargli la laurea.
I primi film
Quel progetto finale, completato nel 1980, era Permanent Vacation, il suo lungometraggio di debutto che, a dispetto di quanto decretato dalla New York University Tisch School of the Arts, venne accolto con entusiasmo dalla critica, soprattutto quella tedesca, perché vi riconobbe un linguaggio affine al Nuovo Cinema Tedesco e in particolare a Wim Wenders, con uno sguardo contemplativo e distaccato sugli emarginati e sugli spazi urbani degradati.
Il minimalismo, il ritmo lento e le lunghe pause, uniti alla rappresentazione di un giovane vagabondo che attraversa una New York desolata, risuonavano con la sensibilità esistenzialista e filosofica della Germania degli Anni Ottanta, mentre l'estetica No Wave e il realismo "sporco" del film, girato con budget ridottissimo, venivano percepiti come segni di autenticità e indipendenza.
Inoltre, il modo in cui Jarmusch aveva decostruito il mito americano (con lo sguardo di uno straniero) contribuì a renderlo particolarmente interessante per la critica europea, attenta alle avanguardie e desiderosa di un dialogo critico con la cultura statunitense.
Nel 1984, torna dietro la macchina da presa con Stranger Than Paradise - Più strano del Paradiso, avvicinandosi alle sensibilità di Nicholas Ray e Wenders.
Si tratta di un'opera segnata da una percepibile gravità e da un ritmo dilatato (nonostante la durata contenuta), frutto di una narrazione costruita come quell'iniziale mosaico di frammenti e piccoli episodi, separati da brevi interruzioni in nero che, lungi dall'offuscare la comprensione, conferiranno al racconto un fascino peculiare e saranno cifra stilistica di Jarmusch.
Il film appariva come giunto da un'altra dimensione, distante dalle convenzioni del cinema contemporaneo, con il suo bianco e nero essenziale e con una trama ridotta all'osso. C'erano interpreti non noti, qualche eco di road-movie e l'assenza di effetti spettacolari. Una sobrietà visiva che potava con sé una neutralità emotiva e la rarefazione delle atmosfere, rivelando una fine artigianalità capace di attrarre chi amava il cinema originale.
Jarmusch, in questa sua seconda opera, non ostentava i suoi numerosi spunti tematici, anzi, evitava facili compiacimenti e metteva in scena il confronto tra due mondi, la vecchia Europa incarnata dalla zia Lotte e dalla giovane Eva Molnar, approdata nel mitico scenario statunitense, e l'America di Willie, che ha rinnegato il nome Bela per dichiararsi cittadino integrato. Gli ambienti, dalle casupole squallide al lago ghiacciato di Cleveland, fino a una Florida reclamizzata come solare ma resa grigia e mesta, restituivano un universo di marginalità, popolato da figure che sopravvivevano tra giochi d'azzardo e scommesse, osservate con scherno e tristezza.
La sua regia, leggera e raffinata, costruiva atmosfere attorno ai tre personaggi che si incrociavano e si separavano come foglie trascinate dal vento, mentre nelle pause oscure emergevano il peso dei problemi e l'angoscia di solitudini esistenziali, con Eva e i suoi compagni sempre estranei agli altri e a se stessi, ben oltre il "Paradiso" evocato dal titolo. Una condizione di estraneità accentuata da una fotografia volutamente piatta, cruda e desolata, in cui il bianco e nero amplificava la tristezza, e se anche la struttura narrativa poteva suggerire una certa pesantezza, i valori artistici comunque prevalevano e risultavano notevoli, culminando in un finale ingegnoso.
I film degli Anni Ottanta
Nel 1986, realizza un piccolo cult degli Anni Ottanta, Daunbailò, che si reggeva sulla splendida e intensa fotografia in bianco e nero di Robby Müller (storico collaboratore di Wenders), sulla presenza di figure carismatiche e rare come Tom Waits (anche responsabile delle canzoni) e John Lurie (autore della colonna sonora), e su un'atmosfera definita dal regista stesso "neo-beat-noir". Anche qui, Jarmusch si fa narratore di spaesamenti e sorprese, sospensioni temporali e di un umorismo asciutto che richiamava quello di Buster Keaton, innalzando una commedia leggera al divertimento e riuscendo a conquistare un posto speciale nella memoria cinefila.
Più minimale e freddo, Mystery Train - Martedì notte a Memphis (1989), un racconto sarcastico e raffinato, fatto di silenzi, stupore, gioco e avventura. Un crocevia di fantasmi e sogni destinati a dissolversi all'alba, accompagnati dalla musica struggente di John Lurie e dalla voce roca di Tom Waits, in un viaggio sospeso tra fuga e vagabondaggio lungo l'assurdità della vita.
I tre episodi che compongono l'opera sono come vagoni di un treno per Memphis, o meglio per l'Hotel Arcade, con l'ombra di Elvis Presley a fare da guida simbolica. Tutti e tre oscillano tra poesia e minimalismo, senza chiarire se vogliano celebrare o criticare la città e la sua musica, ma alla fine prevale il piacere del racconto.
Oltre agli interpreti principali, tutti convincenti (con una menzione per Nicoletta Braschi), spiccano le figure grottesche di contorno, come il cantautore Screamin' Jay Hawkins, qui imponente portiere in giacca rossa, e il fratello di Spike Lee, Cinqué Lee, qui fattorino svagato. Con il loro duetto comico offrono un contrappunto irresistibile ed è, anche grazie a loro che Jarmusch si conferma quasi un Ernst Lubitsch della generazione post-rock.
I film degli Anni Novanta
Negli Anni Novanta, sono tanti gli attori che guardano incuriositi ai suoi lavori. Tanto che, nel 1991, dirige un cast importante (Winona Ryder, Gena Rowlands, il sempre presente Roberto Benigni, Giancarlo Esposito, Armin Mueller-Stahl, Rosie Perez, Isaach De Bankolé e Paolo Bonacelli) in Taxisti di notte, una corda di cinque storie intrecciate simultaneamente, ambientate in tre continenti e raccontate in lingue diverse, tutte centrate sull'incontro fugace tra un tassista e il suo passeggero durante la notte. Cinque rapporti circoscritti nel tempo e nello spazio, ma non per questo privi di verità.
Il viaggio comincia a Los Angeles al tramonto, prosegue nella notte di New York, Parigi e Roma e si conclude a Helsinki, dove l'alba dissolve la cupa oscurità invernale. Ogni episodio ripropone, con una certa insistenza, il microcosmo del taxi notturno in una grande metropoli, luogo di incontri casuali destinati a non avere seguito, che lasciano ciascun personaggio nella propria solitudine. Durante il tragitto, però, è la parola a dominare, con la sua forza capace di sedurre, tradire, commuovere e ferire. Alcuni episodi risultano più incisivi di altri (come quello di Los Angeles, interpretato con intensità dalla coppia Rowlands-Ryder e l'ultimo, ambientato a Helsinki, che racconta con struggente delicatezza il dolore di un padre per la perdita della figlia), ma in tutti lo sguardo di Jarmusch sulla desolazione luminosa delle città notturne, tra sirene e automobili che scivolano nell'oscurità, è potente e poetico, e ogni episodio diventa un piccolo saggio sul potere smisurato del linguaggio.
Il film, nel suo insieme, alterna momenti di comicità surreale a un finale intriso di abbattimento, restituendo un ritratto amaro e affascinante di città immerse nella loro quotidiana desolazione.
Poi, dopo quattro anni di assenza dal grande schermo, tornerà al bianco e nero con Dead Man (1995), delineando un universo incantato e crudele, ma che si rivelerà più caricaturale e grottesco.
La critica, stavolta, si spacca. Se da una parte c'è chi ne apprezza l'assoluta ode alla poesia e alla figura di William Blake, dall'altra si scrive che la pellicola trasmette un'impressione di virtuosismo compiaciuto e sterile, sostenendo che il regista, dopo Stranger Than Paradise, non è stato più in grado di realizzare opere convincenti, e che aveva mostrato i suoi evidenti limiti già da Duanbailò. Lo accusano peraltro di aver arruolato il mitico Robert Mitchum per relegarlo a un'apparizione priva di senso, sprecando così un'icona del cinema in un esercizio manierato passato per un tentativo di provocazione.
Dead Man, insomma, non sarebbe altro che un gesto presuntuoso e fine a se stesso, che avrebbe confermato un ulteriore passo falso nella filmografia di Jarmusch, il quale però non sembra particolarmente colpito dalle loro parole e, nel 1997, sforna il documentario Year of the Horse, seguito da un titolo che riprende il medesimo tema centrale di Dead Man, ma sviluppandolo con accenti più eccentrici e con un approccio meno "classico" sul piano stilistico, arricchito da riferimenti colti e da un'impronta più intellettuale.
Arriva nelle sale Ghost Dog - Il codice del samurai (1999), un titolo denso di suggestioni politiche e culturali, che spaziano dalla dialettica tra tradizione e modernità alle tensioni di carattere razziale, e trova un filo conduttore nelle massime tratte dall'Hagakure, testo fondamentale dell'etica samurai, riportate in sovrimpressione e rielaborate direttamente da Jarmusch.
Ne risulta un film che, pur mantenendo la sua essenzialità narrativa, si distingue per la capacità di intrecciare riflessioni filosofiche e sociali con un linguaggio visivo e concettuale originale, confermando la vocazione del regista a un cinema di contaminazione e di pensiero.
La piccola grandezza di Coffee and Cigarettes
Si prende poi tutto il tempo del mondo per presentare fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia del 2003 Coffee and Cigarettes, una raccolta di undici episodi girati in bianco e nero che, come un gioco privato ma accessibile a tutti, mette in scena un caleidoscopio di volti noti (da Roberto Benigni a Cate Blanchett, da Iggy Pop e Tom Waits a Bill Murray, Steve Buscemi e i membri del Wu-Tang Clan) intenti a discutere di tutto e di nulla davanti a una tazzina di caffè e a una sigaretta.
Nato nel 1986 con un breve cortometraggio omonimo interpretato da Benigni, poi ampliato da altri due corti del 1989 e del 1993, è un progetto particolarmente apprezzato dalla critica francese perché Jim Jarmusch, con il suo stile minimalista, ha saputo trasformare degli incontri apparentemente banali in piccoli gioielli di cinema d'autore, con macchina da presa fissa e dialoghi surreali che oscillano tra il nulla e l'assurdo
Proprio questa semplicità, unita alla capacità di rendere straordinario l'ordinario, ha colpito la sensibilità francese, da sempre attenta ai dettagli e ai silenzi, mentre la presenza attoriale conferiva un'aura speciale a tutto, rendendo la conversazione un momento di complicità cinefila e musicale.
La critica sottolineò come l'autoironia dei personaggi e la sobrietà estetica riflettevano perfettamente la poetica indie di Jarmusch, confermando il valore del film come un esempio di cinema capace di reinventare il quotidiano con leggerezza e intelligenza. Un'antologia di variazioni sul tema della chiacchiera, ambientata in spazi pubblici che diventano luoghi di intimità.
Gli incontri, ora tra amici, ora tra rivali, ora tra parenti o perfetti sconosciuti, si trasformavano in piccoli saggi sul potere della parola, capace di sedurre, tradire, commuovere o semplicemente riempire il vuoto della solitudine; e se alcuni episodi brillavano per allegria o spleen, altri si avvicinavano a un tono beckettiano, rivelando un'America minore, sazia di sé ma bisognosa di schiettezza.
Fedele ai principi del suo cinema marginale, Jarmusch dimostra alla critica e al pubblico che per fare cinema bastano un locale, due attori e uno spunto da improvvisare. Così Coffee and Cigarettes, apparentemente un'opera minore, si rivelò una dichiarazione di poetica: un cinema crepuscolare e beffardo, che rifletteva sulla vicinanza e sulla fragilità dei rapporti umani, dove ciò che contava non era tanto il contenuto dei dialoghi - che spaziavano da Mahler a Gianni e Pinotto, da Tesla a Spike Jonze - quanto il modo in cui venivano detti, attraverso corpi, volti e gesti che restituivano la vitalità lucida e disperata di
Il Grand Prix Speciale della Giuria per Broken Flowers
Nel 2005, vince il Grand Prix Speciale della Giuria per Broken Flowers, che segna il secondo incontro tra Bill Murray e Jim Jarmusch dopo Coffee and Cigarettes.
Il film si apre con il muto dileggio e lo sguardo pigro dell'attore che imprimono fin da subito il tono dell'opera, confermando il ritorno in gran forma del regista come icona del cinema indipendente. Il resto lo farà la valorizzazione di un ampio ventaglio di attrici (Sharon Stone, Tilda Swinton, Julie Delpy, Jessica Lange, Frances Conroy, Chloë Sevigny), tutte impegnate in un esempio di cinema capace di intrattenere senza rinunciare alla profondità e fondato su idee che non hanno bisogno di effetti spettacolari.
I temi sono quelli tipici di Jarmusch (amarezza, fuga dal tempo, senso di una paternità smarrita) restituiti con un'atmosfera fluida e accattivante, che rendeva il film più accessibile di altri suoi lavori. Esisteva una certa prevedibilità narrativa, ma era compensata dal tipo di racconto: un puzzle elegante e surreale che scaldava la freddezza dello humour. Un "giallo del cuore", con pochi dialoghi e molta musica etiopica, formula che sottolineava la sua natura di indagine interiore più che di genere. Un'opera sulla delusione, quindi, che a molti sembrava una visione superficiale e deludente, ma che per la maggior parte dei critici rivelava invece la straordinaria finezza nel modo in cui Jarmusch lavorava (così come ha sempre lavorato) sulle allusioni e sul non detto, illuminando i personaggi con dettagli minimi ma incisivi, segni di un'etica cinematografica ormai rara.
Viene invece considerato il punto debole della sua filmografia The Limits of Control (2009). Percepito come eccessivamente criptico, monotono e privo di una vera progressione narrativa (la storia, incentrata su un killer enigmatico che attraversava la Spagna seguendo indizi misteriosi, si sviluppava attraverso incontri ripetitivi e dialoghi oscuri che, invece di creare tensione, trasmettevano un senso di vuoto e di frustrazione), il film è stato giudicato come un puro esercizio estetico fine a sé stesso, incapace di sostenere un coinvolgimento emotivo o narrativo. In Europa, l'opera aveva ricevuto valutazioni contrastanti, tra chi l'aveva vista come un esperimento radicale e chi l'aveva liquidata come incomprensibile, mentre negli Stati Uniti era stata rapidamente bollata come il peggior film di Jarmusch, segno che la sua radicalità formale aveva superato la capacità di comunicare con il pubblico, trasformando un tentativo di cinema contemplativo in un lavoro percepito come vuoto e autoreferenziale.
Si rifarà con il sublime e horror Solo gli amanti sopravvivono (2013), una creatura filmica intrisa di inquietudine che trasportava lo spettatore nel rapporto secolare tra Adam ed Eve, vampiri raffinati e consapevoli del tempo presente, interpretati da Tilda Swinton e Tom Hiddleston, figure eleganti e carismatiche immerse tra Detroit e Tangeri in atmosfere decadenti e notturne.
Il film, manieristico nella costruzione visiva e concettuale, rivelava un Jarmusch fedele alla sua poetica di cinema elitario, popolato da personaggi laconici e aristocratici, custodi di arti e pratiche antiche ormai destinate a scomparire in un mondo di "zombie" contemporanei.
La narrazione, lineare ma densa di autobiografia, alternava momenti di risata e introspezione a tempi sospesi e vampirici, con una regia che privilegiava immagini raffinate, dialoghi essenziali e musiche evocative, trasformando la storia romantica dei protagonisti in una parabola sulla crisi dei valori e sulla fatica di continuare a vivere per amore.
Se i lavori precedenti sembravano segnare un percorso esaurito, qui Jarmusch aveva sprigionato nuova energia, con l'intento di riaffermarsi con un film che, pur non privo di lentezze e cadute di tono, si distingueva come una riflessione sofisticata e suggestiva sull'umano fragile ed eterno.
Non da meno la lettera d'amore agli Stooges Gimme Danger (2016), documentario dedicato a una delle band più selvagge e seminali della storia del rock, capace di esplodere alla fine degli Anni Sessanta con un suono che mescolava rock, blues, R&B e free jazz e aprendo la strada al punk e all'alternative rock.
Attraverso materiali d'archivio, interviste, animazioni e frammenti di repertorio, Jarmusch ricostruisce il contesto musicale, culturale e politico in cui la band di Ann Arbor, guidata dall'iconico Iggy Pop (figura eccessiva, autodistruttiva eppure sopravvissuta) ha segnato un'epoca, affiancata dai fratelli Ron e Scott Asheton e dal bassista Dave Alexander.
Presentato a Cannes, il film alterna caos e rigore, convenzioni e sovversioni, raccontando non solo la musica elettrica e distorta che Jarmusch ama da sempre (già celebrata in Year of the Horse con Neil Young e i Crazy Horse), ma anche il lato oscuro fatto di droga, mancanza di professionalità e ribellione. Il titolo è preso da un brano di Raw Power del 1973 ed era un indizio di come Jarmusch non si sarebbe limitato a rispettare i codici del classico doc rock, ma li avrebbe rielaborati ponendosi in ascolto della storia, delle memorie di Iggy e dei suoi compagni e trasformando il documentario in un luogo dove si raccolgono voci scomparse e si intrecciano linguaggi e culture popolari. In questo modo, il film celebrò i sopravvissuti, rendendo omaggio ai morti e invitando alla rivolta. Un viaggio appassionato e nostalgico nel cuore di una rivoluzione musicale che aveva cambiato il panorama del rock.
Più minimale e contemplativo, Paterson (2016), che raccontava una settimana nella vita di un autista di autobus (interpretato da Adam Driver) e della sua compagna Laura (Golshifteh Farahani) con il bulldog Marvin a rubare spesso la scena.
Un'opera che trasformava la routine quotidiana (lavoro, passeggiate, soste al bar e poesie annotate su un taccuino) in una riflessione poetica sulla ripetizione, sulla fragilità dell'esistenza e sulla bellezza dei dettagli. Girato con nitore cristallino e scandito da sovrimpressioni e dissolvenze accompagnate dalla musica del gruppo Sqürl, il film evitava conflitti e drammi "all'americana" per concentrarsi sul mistero pacifico della vita di ogni giorno, con echi di William Carlos Williams e versi di Ron Padgett che incarnavano lo spirito imagista della beat generation.
Jarmusch, ancora una volta fedele alla sua poetica, costruisce anche qui un puzzle di incontri minimi (dai passeggeri dell'autobus a una bambina poetessa, fino a un giapponese in pellegrinaggio) che diventano momenti di intesa segreta e rivelano la delicatezza di un mondo interiore fragile ma prezioso.
Apprezzato a Cannes, Paterson venne letto come una favola semplice e insieme densa di vita, che rifiutava i cliché spettacolari e si affidava alla forza della parola e dei silenzi, restituendo un ritratto ironico e sentimentale di un'America diversa, dove la poesia diventava strumento di resistenza al conformismo e alla velocità imposta.
Tornerà all'horror con la commedia I morti non muoiono (2019), suo tredicesimo film che ebbe l'onore di inaugurare la 72ª edizione di Cannes, popolando il grande schermo di zombie sanguinari e da un cast stellare che includeva Bill Murray, Adam Driver, Chloë Sevigny, Tilda Swinton, Iggy Pop, Steve Buscemi, Tom Waits, Selena Gomez e Danny Glover.
L'opera, che mescolava divertimento e riflessione, riprendeva il genere horror per declinarlo in chiave personale, con personaggi laconici, situazioni surreali, humour sofisticato e un ritmo volutamente lento. Tra citazioni cinefile (da La notte dei morti viventi di Romero a Star Wars) e riferimenti pop, il film giocava con il metalinguaggio e con l'ironia, trasformando gli zombie in metafora della massificazione, del consumismo e dell'omologazione contemporanea.
La pellicola affrontava temi politici e sociali, dall'apocalisse ecologica ai rigurgiti suprematisti, dalla mania della connessione perenne alla violenza latente nei rapporti umani, senza mai cadere nello splatter ma mantenendo un tono leggero e autoironico (perché gli zombie sono appena più "zombie" degli uomini). Un'allegoria sul tempo di un'America stanca e disincantata che riflette su se stessa, fino alla chiusura amara.
Il Leone d'Oro per Father Mother Sister Brother
Tornerà al racconto episodico con Father Mother Sister Brother (2025), Leone d'oro al Festival di Venezia, accolto con entusiasmo dalla critica perché in grado di trasformare il tema universale dei rapporti familiari in un'opera poetica e radicale, articolata in tre storie ambientate tra Stati Uniti, Irlanda e Francia che mostravano prospettive diverse e complementari. Il film affrontava la distanza tra genitori e figli, la fragilità dei legami e il peso del tempo con coraggio e rigore, rifiutando facili risoluzioni e restando nel non detto, mentre il cast prestigioso (da Adam Driver a Charlotte Rampling, da Cate Blanchett a Vicky Krieps) dava vita a personaggi intensi e sfaccettati. Una voce contemporanea che rifletteva sulla famiglia e sulla società odierna, unendo sperimentazione formale e profondità emotiva e confermando la capacità di Jarmusch di reinventare il cinema indie.
Altri corti
Tra i cortometraggi di Jarmusch, si devono menzionare, oltre che le opere legate a Coffee and Cigarettes, anche The New World (1982) e "Int. Trailer Night", episodio di Ten Minutes Older: The Trumpet (2002), dove con la più completa libertà creativa e nel tempo di dieci minuti, Jarmusch portava sullo schermo la sua personale interpretazione del "tempo".
Spot e videoclip
Anche autore di spot pubblicitari, firma la reclame per French Water nel 2021. A questo, si aggiungono i video musicali di Talking Heads ("The Lady Don't Mind", "Storytelling Giant"), Tom Waits ("It's All Right With Me", "I Don't Wanna Grow Up"), Neil Young ("Dead Man", "Big Time" con Crazy Horse), Cat Power ("A Pair Of Brown Eyes"), Big Audio Dynamite ("Sightsee MC") e The Raconteurs ("Steady, As She Goes: Version 1").
Sceneggiatore e attore
Sceneggiatore e produttore dei film di Sara Driver, Jim Jarmusch si è prestato come attore per numerosi colleghi come Alex Cox (Diritti all'inferno, 1987), Mika Kaurismäki (Napoli-Berlino, un taxi nella notte, 1987), Aki Kaurismäki (Leningrad Cowboys Go America, 1989), Raúl Ruiz (The Golden Boat, 1990), Alexandre Rockwell (In the Soup - Un mare di guai, 1992), Paul Auster e Wayne Wang (Blue in the Face, 1995, dove interpreta un amatore di film bellici) e il Premio Oscar Billy Bob Thornton (Lama tagliente, 1996).
Altri lavori
Ha poi partecipato alle musiche di Lo stato delle cose (1982) del suo idolo, Wim Wenders, e ha curato la fotografia di Sleepwalk (1986) di Sara Driver.
Vita privata
Jim Jarmusch è sposato dal 1980 con la regista Sara Driver.
Esiste una cultura zombi? Forse è questa la domanda che bisogna farsi per capire dove va a parare Jim Jarmusch con il suo nuovo I morti non muoiono. Il film, presentato al Festival di Cannes 2019 come proiezione di apertura, ha già spaccato in due il pubblico degli appassionati di Jarmusch. Chi trova quest'ultimo capitolo della sua carriera in linea con gli ultimi, malinconici racconti cinefili (in particolare Solo gli amanti sopravvivono, cui sembra apparentarsi fin dalla titolazione, e Paterson, che condivide l'attore principale Adam Driver) è in contrasto con chi si chiede perché il cineasta americano mostri questa volta tanta svogliatezza