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Robert Bresson

Robert Bresson è un attore francese, regista, sceneggiatore, è nato il 25 settembre 1901 a Bromont-Lamothe (Francia) ed è morto il 18 dicembre 1999 all'età di 98 anni a Parigi (Francia).
Nel 1983 ha ricevuto il premio come gran premio speciale cinema di creazione al Festival di Cannes per il film L'argent. Dal 1957 al 1983 Robert Bresson ha vinto 7 premi: David di Donatello (1977), Festival di Berlino (1977), Festival di Cannes (1957, 1967, 1983), Festival di Venezia (1966), Nastri d'Argento (1969).

Gli attributi che meglio descrivono l'arte di Bresson (1907 sono il rigore e la coerenza. La sua presenza all'interno del mondo del cinema è stata segnata da una totale negazione delle logiche produttive che solitamente governano l'industria cinematografica. Cosa che in parte gli ha procurato difficoltà nel reperire i fondi necessari a mettere in scena i suoi film.
Ma questo carattere costante di tutta la sua carriera, non è lo specchio di un'attività artistica statica: Bresson ha continuamente sviluppato il suo linguaggio attraverso una ricerca attenta e rigorosa, sempre più coerente con le sue convizioni. Una ricerca rilevante non solo per la sua filmografia, ma per tutto il cinema francese, Nouvelle Vague* compresa, di cui Bresson non fece parte, ma per la quale rappresentò un esempio da seguire.
Prima di lui infatti, il cinema francese era uno spettacolo con regole abbastanza codificate: una sceneggiatura ben scritta; un modello narrativo che guardava soprattutto al romanzo, con un intreccio coerente e dialoghi attenti nel caratterizzare precise tipologie umane. Bresson le stravolge con Pickpocket - Diario di un ladro (1959), film che segna alcune conquiste fondamentali per il lessico cinematografico: il rifiuto dell'intreccio e dell'interpretazione classica; la scoperta delle riprese in esterno; una percezione soggettiva del racconto filmico, vale a dire la presenza di un autore nel racconto; il sopravvento dell'immagine rispetto alla parola.
Ma si tratta di caratteri cui Bresson arriva per gradi. Prova ne siano i suoi primi film, La conversa di Belfort (1943) e Perfidia (1945), che si affidano, soprattutto nella scrittura (nel caso del secondo tratta da un romanzo di Diderot con i dialoghi rielaborati da Jean Cocteau), ad una struttura abbastanza tradizionale - personaggi antitetici e un crescendo che conduce al finale - e di matrice teatrale.
Il successivo Diario di un curato di campagna (1950) è il primo film maturo di Bresson, in cui si comincia a chiarire il suo stile particolare, nel quale forme, personaggi, montaggio e dialoghi sono costruiti secondo una logica dell'economia, della sottrazione del superfluo per far posto all'essenziale.
Ne Un condannato a morte è fuggito (1956) Bresson scopre il potere dei suoni, in maniera lenta e progressiva. All'inizio inserisce la musica quando i personaggi smettono di parlare, poi asseconda quanto dicono "citando", a seconda dei casi, Mozart e Monteverdi, in seguito rinuncia a commenti e suoni per ascoltare i rumori e, a volte, sostituirli alle frasi. Il risultato che ne vien fuori, seppure gelido, è finalizzato ad eliminare qualsiasi tipo di distrazione, per instaurare un rapporto stretto tra l'attenzione di chi guarda e le indicazioni di chi mostra.
Anche ne Processo a Giovanna D'Arco (1962) i gesti semplici delle mani di Giovanna che si muovono come quelle dei sordomuti o il suo modo di tenere il capo, inclinato come quello dei ciechi, parlano più di tante parole. Così come ne Un condannato a morte è fuggito (1956) una spilla che serve ad aprire la serratura delle manette, un cucchiaio che funge da sega, una corda per l'evasione intrecciata con estrema pazienza tessono una sinfonia visiva, mentre i "rumori", la musica naturale del mondo, si concentrano sulle chiavi che girano nelle serrature, su un treno che passa lontano, sui tacchi dei questurini che battono sul pavimento. Tutti questi elementi servono per raccontare la storia di un uomo, un membro della Resistenza, rinchiuso da solo nella cella di un carcere. Una solitudine che esprime emarginazione, estraniamento rispetto al mondo circostante. Una condizione d'animo che vivono tutti i personaggi bressoniani: oltre a Giovanna e al condannato a morte, anche Mouchette nel film omonimo (1967), la protagonista di Così bella così dolce (1969), Lancilloto di Lancillotto e Ginevra (1974), il piccolo Charles ne Il diavolo probabilmente (1977). Tutti esseri che vivono in un mondo crudo, in cui i rapporti tra le persone e il loro valore spirituale rischia di essere completamente annullato. Una condizione che genera sofferenza, impotenza nel non riuscire ad esprimere una diversità fatta di desiderio, esplorazione della propria interiorità etica e capacità di utilizzare il dolore come strumento vivo di conoscenza.
Dietro tutto questo c'è una spiritualità nutrita di forte pessimismo che nel tempo, da un film all'altro, annulla qualsiasi elemento di speranza. Quella progressione che ha accompagnato Bresson nella sua ricerca tecnica, è presente, infatti, anche nella sua evoluzione tematica, nel senso che la visione della società diventa progressivamente più tetra e, al suo interno, è sempre più difficile trovare spazi di espressione. Se alla fine il condannato a morte fuggiva dalla cella, se la morte di Giovanna D'Arco rappresentava una negazione che suggellava una liberazione, da Au hasard Balthazar (1966) qualcosa sembra chiudersi. Da questo film, il dualismo tra le regole del mondo e la libertà della morale si risolve, in maniera disperata, sempre a danno della seconda.
Una traiettoria presente anche nel penultimo film di Bresson, Il diavolo, probabilmente, dove la voglia di vivere e giocare di un bambino si infrange contro una società industrializzata che uccide la natura. Quando a questa situazione, che il bambino si trova suo malgrado a vivere, si uniranno i suoi piccoli problemi sentimentali e poi quelli esistenziali, riuscirà ad essere indifferente solo per breve tempo: alla fine chiederà ad un suo compagno di strada, drogato e ladruncolo, di togliergli la vita.
Un'ulteriore verifica di quanto il pessimismo di Bresson diventi sempre più profondo, la si può compiere passando in rassegna i volti dei personaggi dei suoi ultimi film che, rispetto al passato, assumano connotati comuni, dotati di una bellezza sempre più convenzionale. É come se Bresson tendesse ad appiattire ogni carattere personale, ogni minimo segno di riconoscimento, per ricordare, magari in maniera solo allusiva, che la vita dell'uomo non dipende dai suoi attributi personali ma è frutto della predestinazione e del caso.

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Drammatico, (Francia - 1983), 85 min.
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