FERNALDO DI GIAMMATTEO
Austero, aristocratico, maniacalmente contrario a tutte le «debolezze» narrative del cinema, preoccupato di estrarre la verità dal linguaggio delle immagini senza cedere mai alle convenzioni (il teatro, la recitazione), Bresson realizza 10 film in 30 anni. Ha una eccellente preparazione umanistica, è pittore. Si accosta all'esperienza cinematografica con un mediometraggio - Les affaires publiques (1934) - e con alcune sceneggiature. Esordisce nella regia durante l'occupazione nazista della Francia, con La conversa di Belfort (1943), una storia drammatica che mette a confronto due suore d'una congregazione domenicana, e Perfidia (1944), il racconto d'una macchinazione femminile ricavata da Jacques il fatalista di Diderot. Pur diversi, i due film mostrano quanto Bresson sia soprattutto attento al fatale esito tragico della esistenza umana e quanto questa sua posizione debba al rigore del giansenismo. Lo stile è duro, scarno. Il suo universo è quello della tragedia, alla quale nulla e nessuno può sfuggire.
Tutti i film successivi, anche se non hanno un esito tragico, sono tragedie. Lo è II diario di un curato di campagna (1950), da Bernanos - storia di un prete che fallisce nella sua missione nonostante ogni sforzo e che si spegne nella sofferenza perché colpito dal cancro - come lo è Un condannato a morte è fuggito (1956), un episodio della Resistenza che vide l'evasione di un prigioniero dalla fortezza lionese di Montluc, come lo è l'ancora più scabro e spoglio Pickpocket (1959), storia (se si possono chiamare storie, queste di Bresson) di un altro «escluso», condannato alla solitudine. I personaggi bressoniani sono tutti cosi: la santa del Processo di Giovanna dArco (1962), la piccola Marie di Au hasard Balthazar (1966), la infelice bambina protagonista - ancora da Bernanos - di Mouchette - Tutta la vita in una notte (1967), la suicida di Così bella, così dolce (1969). Il punto più radicale e disperato della parabola il regista lo raggiunge nei tre ultimi film, dove l'austerità si trasforma in una sorta di aridità, l'essenzialità in ineffabilità, a beneficio della cupa insistenza sul tema della condanna cui l'uomo non può sfuggire: l'epopea di Lancillotto e Ginevra (1974), girato tutto in interni stilizzati e opprimenti, II diavolo probabilmente... (1978) e L'argent« (1983). Produrre l'emozione ottenendola attraverso una resistenza all'emozione»: questo sostiene Bresson e questo talvolta ottiene, con uno sforzo di rarefazione estrema, intollerabile per lo sguardo dello spettatore.
Fernaldo di Giammatteo, Dizionario del cinema. Cento grandi registi,
Roma, Newton Compton, 1995