Dieci anni dopo Black Book, Paul Verhoeven torna al cinema con un thriller letale girato in Francia che sovverte gli archetipi del cinema francese. Dal 23 marzo al cinema.
di Marzia Gandolfi
In principio è un gatto. Un gatto placido e sovrano in primo piano. Un gatto che osserva impassibile l'aggressione della sua padrona. Ironia, ferocia, sofisticatezza, il tono del film è dato. Niente accade accidentalmente nel thriller aspro e abrasivo di Paul Verhoeven. Proprio come un felino, l'eroina non (re)agisce mai in maniera prevedibile a quello che accade. Anzi, più apprendiamo qualcosa su elle e meno la comprendiamo. Ma impariamo molto e in fretta.
Lei si chiama Michèle, vive da sola in una grande casa borghese nella provincia parigina, dirige con autorità e autorevolezza una casa editrice di video giochi, ha un ex marito, un'amante, il marito della sua socia e migliore amica, un figlio babbeo, una madre immatura che oscilla tra botox ed escort boy, e un padre mostruoso che in un passato lontano ha assassinato ventisette persone.
Nel romanzo di Philippe Djian ("Oh..."), di cui Elle è l'adattamento Michèle è la narratrice, lei racconta e si racconta. Verhoeven riduce al silenzio la voce off impedendo allo spettatore l'accesso ai suoi sentimenti. Perché più del libro, il film si appoggia sull'insondabilità, muovendosi sul confine che separa innocenza e colpevolezza, normalità e follia. Michèle ordina del sushi dopo la violenza carnale invece di chiamare la polizia, Michèle non tarda ad avere una relazione sordida col suo carnefice, che saluta ogni mattina con disinvoltura prima di andare al lavoro. Nessuno errore, nessuna conseguenza, Verhoeven non fa l'apologia dell'abuso, è piuttosto interessato alla descrizione e al gioco di dominazione tra due singolarità estreme.
Elle assimila maschile e femminile, perché non è il genere a determinare la sessualità come dimostra magnificamente la scena di masturbazione di Isabelle Huppert dietro le tende, mentre spia l'uomo che desidera e osserva la moglie bigotta installare in giardino con entusiasmo infantile le decorazioni natalizie. Una scena semplice, sovente mostrata al cinema con un uomo come protagonista. Mai una donna, soprattutto dentro un film distribuito nei circuiti commerciali abituali. Perché il cliché secondo il quale solo gli uomini sarebbero dei voyeur è sancito come norma. Ma il sesso non è una norma. Autore di ossimori, la sua arte è tutta di dissonanza e di alleanze contro natura, di umore nero e di ironia mordace, Paul Verhoeven esplora l'ambiguità umana, interrogando le zone d'ombra dell'uomo e della donna. Gli antagonismi sono per loro natura indissociabili, si corrispondono, si nutrono. Così se la morte governa ogni angolo del film, il suo spiegamento non impedisce alla vita di sollevarsi di nuovo per regnare padrona e nella interpretazione imperturbabile e incandescente di Isabelle Huppert.
Le devianze permettono all'autore di infilarsi nelle crepe della normalità e dell'ipocrisia borghese che nasconde la violenza dietro il perbenismo. Michèle fa tutto quello che non andrebbe fatto e i suoi affetti non sono certo più raccomandabili.
Concentrato di follia borghese e di gioiosa misantropia, Elle fa pensare a Claude Chabrol, il raccordo è evidentemente Isabelle Huppert, piccolo gioiello di sovversione (Grazie per la cioccolata). Ma Isabelle Huppert determina pure lo smarcamento di Verhoeven da Chabrol, perché la sua disposizione alla sopravvivenza, il suo aplomb e la sua attitudine a 'rimettere ordine' senza battere ciglio sono tipici dell'eroine dell'olandese violento, attratto ancora una volta dalle guerriere amorali.
Il cinema di Verhoeven prende sempre le parti delle donne contro gli uomini e la loro incapacità a vivere pienamente i loro fantasmi. Lo choc della violenza carnale libera le pulsioni di morte di Michèle, già traumatizzata nell'infanzia come Catherine Tramell (Basic Instinct) o Nomi Malone (Showgirls). Irresistibilmente attratta dal sadismo del suo carnefice, la protagonista partecipa a un gioco di dominazione sessuale malsano ma emancipatore. Michèle passa dallo stato di oggetto a quello di soggetto, da preda a predatrice che si sbarazza di una discendenza mostruosa per creare un lignaggio nuovo giungendo a un controllo assoluto della sua vita. E Verhoeven descrive meticolosamente la supremazia del personaggio sul suo entourage: il potere finanziario sul figlio idiota che incarna comicamente e pateticamente quella propensione tutta maschile di non vedere quello che capita loro sotto al naso, il fascino sull'ex marito, la soggezione sulla migliore amica, il potere sui suoi impiegati ("la padrona sono io"). E in ogni relazione, l'eroina, indecifrabile, si rivela progressivamente cinica, inflessibile, lucida, ironica e perversa fino all'orgasmo.
Improntato sulle seduzioni del thriller, il film si articola intorno all'identità dello stupratore ma individua il vero mistero nella personalità di Michèle, Elle è un film di pura messa in scena, che evoca, ritmicamente parlando, il cinema di Hitchcock.
È un racconto claustrofobico e opaco che osserva un'umanità guidata dai suoi umori (sangue, sperma), come sovente nell'autore di L'amore e il sangue, Flesh and Blood nella versione originale. Dietro la satira sociale, la biologia, il realismo secco, la fantasia nera, la metamorfosi implacabile. Un Verhoeven a pieno regime che eleva la perversione ad arte e a grande arte. Come lui ha espugnato Hollywood, così lei espugna il sistema maschilista prendendosi una rivincita su tutti i rappresentanti della società patriarcale (padri, mariti, amanti, impiegati, aggressori) e sopravvivendo in un mondo osceno. E nell'oscenità agisce la filosofia di Paul Verhoeven.