Difficile parlare dell'autorialità di una regista che dice di se stessa «mi sento un'attrice». Ma non impossibile. Valeria Bruni Tedeschi (classe 1964) ha diretto tre film, scritti con lo stesso "team" (lei, Agnès De Sacy e Noémie Lvovsky) e condotti sul filo dell'autobiografismo, che nel suo caso significa molte cose. Frontiere, ad esempio. Tra due paesi (l'Italia delle origini, la Francia della vita) due lingue (il bilinguismo lega fortemente le tre storie e i personaggi che interpreta, anche in altri film come il recente Viva la libertà) ma anche tra generazioni (i genitori, i figli) e classi sociali. Lei, in mezzo. Non più solo italiana ma non del tutto francese. Non più giovanissima eppure inquieta nel vivere storie d'amore (anche) con chi è più giovane di lei. Ricca ma non senza qualche senso di colpa, sublimato narrativamente. I suoi film sono È più facile per un cammello... (2003), Attrici (2007) e l'ultimo Un castello in Italia, dal 31 ottobre in sala. Si possono seguire per ogni titolo gli elementi dialettici messi in campo, così da formare una geografia "poetica" molto personale.

Il rapporto con la madre. In È più facile per un cammello... e Un castello in Italia è interpretata da Marisa Borini, vera mamma di Valeria, quasi giullaresca nella sua esuberanza, e non si sa se rappresentarla così, seppure attraverso due personaggi non identici, equivalga o no a una elaborazione taumaturgica. Si entra in cortocircuiti non solo autobiografici ma psicoanalitici. Il castello dell'ultimo film è una tenuta di Castagneto Po che la famiglia di Valeria (nella finzione) vorrebbe lasciare all'amministrazione pubblica, tramite l'intervento del sindaco Silvio Orlando. Il fratello Filippo Timi (riflesso del vero fratello dell'attrice Virginio, prematuramente scomparso) non è d'accordissimo ma poco importa, perché il film va in un'altra direzione. Succedeva così anche nelle due prove precedenti: il cinema di Bruni Tedeschi spiazza spesso. Ti induce a pensare all'amour fou tra la protagonista e Louis Garrel e poi scopri che è qualcosa d'altro (forse un calesse, avrebbe detto Massimo Troisi). Immagini l'ennesimo rispecchiarsi dell'arte nella vita, o viceversa, come in Attrici, dove Valeria si immedesima in un personaggio di Turgenev che deve recitare in teatro, e invece ti trovi immerso nella sua resa dei conti generazionale, con la madre o il padre appena morto.

Come se appunto l'arte fosse presa in contropiede dalla vita. Certo tra madri vere, fidanzati o ex fidanzati veri, disorientamenti personali credibilissimi (ma i confronti più serrati però sono con fratelli, non sorelle, e anche in questo c'è un che di freudiano...) l'autobiografismo è a rischio ridondanza. L'abilità sta nel rendere una materia "propria", relativa cioè al vissuto personale, narrativamente avvincente per chi nulla sa, né vuole sapere, della storia pubblica e privata della famiglia Bruni Tedeschi, scappata in Francia negli anni 70 per fuggire al clima di piombo della Torino di allora. Come attrice, è memorabile di Valeria la parte dell'ex terrorista di La seconda volta di Mimmo Calopresti, con Nanni Moretti. E in fondo il legame con Nanni, che nella finzione di allora era dovuto a un proiettile (quello che lei sparò a lui), resta nel suo cinema a livello di modalità di scrittura e struttura: essere in campo in prima persona, ricreare sullo schermo la comunità umana da cui si è circondati (centrale per entrambi la figura materna) assecondare le idiosincrasie più autentiche elaborate sullo schermo come nelle pagine di un "journal intime". Guarda caso, il titolo francese di Caro diario.