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La politica degli autori: Ridley Scott

Lo stile di un regista che mescola neoclassicismo e sentimenti avveniristici.
di Mauro Gervasini

In foto il regista Ridley Scott.
Ridley Scott (86 anni) 30 novembre 1937, South Shields (Gran Bretagna) - Sagittario.

mercoledì 19 settembre 2012 - Approfondimenti

Maggio 1977. L'allora presidente di giuria del Festival di Cannes, Roberto Rossellini, non poteva certo dirsi contrario all'assegnazione della Palma d'oro a un film italiano (Padre padrone dei fratelli Taviani) ma era noto quanto fosse entusiasta di un altro concorrente. Un'opera prima battente bandiera britannica, tratta da un racconto di Joseph Conrad: I duellanti. Che infatti vinse il premio per il migliore esordio, inaugurando in gloria la fulgida carriera del suo autore, Ridley Scott. Scott aveva esattamente 40 anni, un diploma al Royal College of Art di Londra, studi artistici a Firenze, un intenso lavoro in pubblicità insieme al fratello Tony, Alan Parker e Hugh Hudson, con i quali aveva fondato un'agenzia specializzata in spot. Mescolando neoclassicismo e sentimenti avveniristici si era già inventato uno stile rimasto pressoché costante fino a Prometheus, il suo ultimo film prequel di Alien attualmente nelle sale. I duellanti, storia della rivalità in armi tra due cavalieri napoleonici che neppure sanno bene perché si odiano, esalta la sua maniacale ricerca formale: l'uso del controluce, la fotografia livida, l'amplificazione del dettaglio. Il premio di Cannes equivale a un biglietto di sola andata per Hollywood. Dove il regista britannico ha un colpo di fortuna. Walter Hill rinuncia a dirigere Alien (1979) e la macchina da presa passa a lui, che applica alla fantascienza la sua sapienza in materia di ambienti contrastati. Il successo è clamoroso. Poi, con Blade Runner (1982), si segna addirittura un'epoca. Tratto da un racconto di Philip K. Dick, allora poco conosciuto, il film marchia l'immaginario fantascientifico come non accadeva dai tempi di Metropolis: ancora oggi la città multiforme di Blade Runner rappresenta il simbolo allegorico della megalopoli contemporanea. Scott, attratto dalla manipolazione delle immagini, si concentra sulle mille sfumature del buio, tratta la storia di fantascienza come fosse un noir (anche se si era opposto alla voce fuori campo "marlowiana" di Harrison Ford), cesella atmosfere e prospettive partendo dal nero dell'ambiente. Con il film successivo, forse il punto più alto della sua ricerca estetica, fa esattamente l'opposto. Legend (1985) ancorché sfortunato al botteghino, è l'esaltazione della luce. In ogni inquadratura una fonte di illuminazione naturale (anche una fiammella che si accende) sconfigge l'oscurità, e la storia fantasy è appunto quella dell'eterna lotta del Bene (l'unicorno bianco di Blade Runner) contro il Male (il re delle tenebre).

Per chi scrive, l'ammirazione per Ridley Scott si esaurisce qui, con i primi quattro fulminanti titoli. Non che poi non abbia diretto cose interessanti. Apprezziamo particolarmente Black Rain – Pioggia sporca (1989), Thelma & Louise (1991), anche un "fenomeno sociale" continuamente rievocato ogniqualvolta fanciulle vessate scappino o colpiscano duramente maschi vessatori; e da ultimo Black Hawk Down (2001), robusto film di guerra. Ma la sua impronta, il suo stile imitatissimo, è diventato maniera. Spesso assecondando i più bassi istinti dello sguardo, come appunto conviene a un autore di spot ma forse non a un cineasta. La cifra del Nostro diventa la ridondanza estetica, l'utilizzo dell'otturatore veloce di Il gladiatore il primo passo per la decostruzione delle scene d'azione, sempre più veloci e incomprensibili, shockanti ma mai epiche (scelta che poi a Hollywood ha fatto scuola, ahinoi). La magia dell'illuminazione naturale di I duellanti o Legend, una volta entrati nell'era della grafica computerizzata (e in questo senso proprio Il gladiatore, ma anche il tremendo Hannibal, sono il punto di non ritorno), si è trasformata nel trionfo dell'artificiale e dell'alogeno, così che tutto il suo cinema è diventato solo superficie.

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