Sebbene sarebbe stato logico aspettarsi distese sconfinate di piantagioni e moltitudini di schiavi sudanti e sanguinanti, ebbene questo non è e non vuole essere Django Unchained; come non lo fu Inglourious Basterds nell’Europa antisemita. Ma se il precedente film del regista Quentin Tarantino fu spietatamente vincente nell’ambiziosa e provocatoria riscrittura artistica di una delle più scabrose pagine della nostra storia, piegata e modellata secondo la violenta estetica tarantiniana e la sua peculiare visione cinematografica, in Django la lente si restringe drasticamente, perché questa è sostanzialmente una storia privata, sforzatamente parlando una storia d’amore, ma costruita e scandita secondo i medesimi schemi e stilemi del precedente film, così che non sarà difficile ravvisare scene speculari, con l’unica eccezione che qui la sostanza non è sufficientemente in grado di reggere la narrazione, e là dove avevamo l’efferato confronto tra ebrei e nazisti, ora caratteri decisamente più bifolchi e grossolani, a tratti macchiette anchilosate.
Django (Jamie Foxx) è un vacillante e inesperto schiavo nero che viene emancipato dal giuridicamente corretto Dr. King Schultz (Christoph Waltz), cacciatore di taglie tedesco. Quella che avrebbe dovuto essere una tempestiva collaborazione si trasformerà ben presto in un solido sodalizio e un percorso di dirozzamento per il giovane Django. Con l’entrata in scena di Calvin Candie (Leonardo DiCaprio), il sadico negriero di marca aristocratica, il film volta decisamente pagina, si percepisce una decisa spaccatura con la prima parte: i personaggi di Django e Schultz subiscono un rovesciamento di ruoli nella condotta e negli atteggiamenti, e il soverchiante personaggio di Leonardo DiCaprio ripara alle molte deficienze della vicenda.
Il film si sostiene soprattutto sulla dialettica e la caratterizzazione d’eloquio dei personaggi “dotti”, in una sorta di sfida di creanza ed arte retorica. Al linguaggio pedante e cancelleresco del tedesco Schultz, si oppone la facondia sdottoreggiante e pretenziosamente letteraria di Calvin, così che risultano maggiormente agguerriti e avvincenti gli scontri a tavolino rispetto alle prevedibili e logorate sferzate e sparatorie.
Tra dinamiche meccaniche e inquadrature divertite Tarantino confonde e si confonde con risorse inspiegabilmente e ingiustificatamente contaminate e stridenti: si spazia da Morricone alla rap-music, da immagini western-retro alle sfarzosissime tappezzerie di casa DiCaprio;in un complesso di soluzioni rabberciate.
Per i cinefili più irriducibili non resta che fantasticare proiettando lo scontro tra Jamie Foxx (Ray) e Leonardo DiCaprio (The Aviator) all’ormai lontano Oscar 2004 quando inaspettatamente DiCaprio incominciò la sua sfortunata serie d’insuccessi, e se da un lato Django cavalca con gli occhialini da sole in stile aviatore, dall’altro non ci resta che ammiccare all’ennesima straordinaria interpretazione di Christoph Waltz, l’unico in gara quest’anno per una statuetta.
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antonio montefalcone
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lunedì 21 gennaio 2013
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sono d'accordo...
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“Django Unchained” ricalca l’impianto del precedente film di Tarantino, anche se questo mi sembra meno riuscito e interessante rispetto a “Inglourious Basterds”. Sembra un godibile e piacevole gioco citazionistico, però quasi sterile e fine a se stesso, che alla lunga stanca e non lascia né vere emozioni, né una certa sostanza dietro la sopraffine e comunque pregevole sceneggiatura. Dell’opera ho trovato migliore la prima parte, appassionata e coinvolgente, inventiva e divertente, piuttosto che la seconda, meccanica, ripetitiva e poco brillante. Deliziosi al solito gli arguti dialoghi e la violenza più allusa che mostrata, alcuni personaggi e scene di geniale inventiva, l’eleganza figurativa della messa in scena e la cura formale della pellicola.
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“Django Unchained” ricalca l’impianto del precedente film di Tarantino, anche se questo mi sembra meno riuscito e interessante rispetto a “Inglourious Basterds”. Sembra un godibile e piacevole gioco citazionistico, però quasi sterile e fine a se stesso, che alla lunga stanca e non lascia né vere emozioni, né una certa sostanza dietro la sopraffine e comunque pregevole sceneggiatura. Dell’opera ho trovato migliore la prima parte, appassionata e coinvolgente, inventiva e divertente, piuttosto che la seconda, meccanica, ripetitiva e poco brillante. Deliziosi al solito gli arguti dialoghi e la violenza più allusa che mostrata, alcuni personaggi e scene di geniale inventiva, l’eleganza figurativa della messa in scena e la cura formale della pellicola. Ma stavolta tutto il film sembra un po’ schiavo di se stesso, e, giusto per rimanere in tema, troppo incatenato al suo gusto citazionista, contaminato e irriverente, che molto stupisce, ma poco conquista la mente o il cuore dello spettatore.
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