Il film d'esordio di Isaiah Saxon si plasma in una forma-nostalgia ben riconoscibile, uno “sculptural film” artigianale e retrò. Al cinema.
di Luigi Coluccio
Quanti universi ci sono dentro The Legend of Ochi, il film di esordio di Isaiah Saxon in uscita per I Wonder Pictures? Scartabellando assieme sulla superfice e sul fondo troviamo il primissimo Ken Loach di Kes e il letterario Black Stallion, il centro spielbergiano di E.T. l’extra-terrestre e altro termometro che è Miyazaki con Il mio vicino Totoro, e poi la coppia Willow e Chi ha paura delle streghe?, il grimorio di Kwaidan fino ad arrivare alle vertigini dell’Ozu de I racconti della luna pallida d’agosto e il feat Powell-Pressburger di Narciso nero.
E poi? E poi si prosegue con il “primato dei primati” Peter Elliott che ha lavorato su Greystoke – La leggenda di Tarzan, il signore delle scimmie, Gorilla nella nebbia e King Kong 2, il mago robotico John Nolan e i suoi modelli per la saga di Harry Potter, Hellboy e Nel paese delle creature selvagge, il prestigiatore-burattinaio Robert Tygner dall’alto dei suoi Labyrinth, La piccola bottega degli orrori e Tartarughe Ninja alla riscossa. Quindi sì, tutte le indicazioni le ha dato Saxon stesso, ma no, Saxon non ha visto la serie The Mandalorian e non ha realizzato il film grazie all’uso massiccio della CGI.
Già, perché sono state queste le prime stilettate mosse al nuovo titolo A24 quando nell’ottobre dello scorso anno fu lanciato il trailer, critiche che guardavano alla luna e non al resto del firmamento dentro il quale è immerso The Legend of Ochi, con il regista subito pronto a dare battaglia su X rispondendo “Sei anni di lavoro artigianale: pupazzi, animatronics, matte paintings e un tocco di animazione 3D. Nessuna IA. Questa è la dichiarazione”. Perché, appunto, se da un lato il film di Saxon sembra muoversi su sentieri emotivi conosciuti, dall’altro la visione rabdomantica che illuminava questi percorsi sembra essersi oramai offuscata.
Il “lore” fondativo degli Eighties è presente con i titoli elencati in esergo, quell’antologia di turbe adolescenziali, cavalcate fantasy e classicismo modernista non sfacciatamente citata ma testardamente inseguita, per una ricerca che deve sempre ritrovare il segno onirico all’interno del linguaggio realistico, aprendo squarci di vertigine che portano a chiedersi se quel paesaggio esista davvero e ti possa inghiottire o se gli Ochi verranno mai a cantare sotto la tua finestra perché sono troppo reali per essere finti. Bambini, tecnologia, ragazzi, natura, il quotidiano, l’ignoto – è tutto lì.
Quindi c’è il resto, la necessità di creare la tavola degli elementi che combinati tra di loro diano fondamento a questo mondo-verso, e le prime interazioni non possono che essere con tre maudit del settore, il trio Elliott/Nolan/Tygner, il primo con la sua esperienza decennale nel (ri)dare vita a primati chiusi dentro uno zoo come a creature preistoriche, il secondo a capo di uno degli studios più intraprendenti del panorama contemporaneo nel perseguire grandi e piccoli progetti artigianali, il terzo traghettatore tra l’analogico dei decenni precedenti e il digitale che scende a patti con l’analogico dei decenni futuri. Tutti e tre, però, sempre e comunque innervati dalle visioni rabdomantiche del filmmaker Saxon – perché è così che vuole essere chiamato e perché è quello che davvero è.
Laureato alla Academy of Art University di San Francisco, nel corso degli anni l’auteur-at-large americano ha messo insieme un ventaglio di competenze che vanno dalle solite scrittura e regia alla creazione di CGI e VFX, passando per scultura, design, montaggio e disegno, tutte coltivate in proprio o nella collettività dell’Encyclopedia Pictura, lo studio fondato assieme a Daren Rabinovitch e Sean Hellfritsch. Segnalati già nel 2008 tra i venticinque giovani talenti di Filmmaker e al centro di un reportage di Esquire dell’anno dopo sulla loro comune Trout Gulch fondata nella California centrale, il trio firma i videoclip seminali Knife per i Grizzly Bear e Wanderlust per Björk.
Dopo, per Saxon inizia la lunga corsa alla realizzazione di The Legend of Ochi: ottenuto nel 2018 un primo finanziamento da parte della AGBO dei fratelli Russo, si butta a capofitto nella creazione del primo modello di Ochi e nei sopralluoghi in Romania, tant’è che quando la A24 e gli altri partner danno luce verde per il film tocca soltanto espandere il metodo organico di lavoro messo in piedi negli anni precedenti – i duecento e più matte paintings creati dallo stesso Saxon vengono integrati con le lenti Baltars prodotte in Usa negli anni ’30 e scelti dal regista per il look del film, dentro la colonna sonora di David Longstreth dei Dirty Projectors entra il gracchiare di Paul “The Birdman” Manalatos che Saxon scopre su YouTube e che sarà la base per le melodie degli Ochi.
I dieci milioni di dollari spesi per il film si concentrano soprattutto su di loro, gli Ochi, con un milione andato via soltanto per l’ideazione e la costruzione dei tre modelli usati durante le riprese (il “pupazzo eroe” che appare nella maggior parte delle inquadrature, il “pupazzo stunt” per le scene d’azione e il “pupazzo zaino” che accompagna la protagonista Yuri). Il centro del film è proprio lui, loro, tant’è che per far muovere l’Ochi servono sei burattinai più Tygner, e due di loro soltanto per occhi e bocca (senza contate i venticinque servomotori presenti nella testa per animare le emozioni della creatura).
Quello che ne viene fuori è, a detta dello stesso Saxon, uno “sculptural film” che a partire da un animatronics ispirato al rinopiteco dorato – la scimmia dai capelli dorati del Sichuan – si plasma in una forma-nostalgia ben riconoscibile ma oramai quasi perduta nella sua aura artigianale, che immette CGI e VFX solo nell’ultima parte quando a prendere il sopravvento è l’onirico e l’irreale ma sempre come supporto al materico e alla traccia, perché tutto si confonda e dal brusio delle nostre vite emerga la melodia dell’Ochi.