Cosa ne sarebbe stato delle lotte degli afroamericani senza il sacrificio di Emmett Till? Il film si concentra sul ruolo della madre per far conoscere a un intero paese la vergogna di cui implicitamente si era macchiato, fingendo di non vedere o di non sentirsi responsabile. Da giovedì 16 febbraio al cinema.
di Roberto Manassero
Nell'agosto del 1955, il quattordicenne afroamericano Emmett Till lascia Chicago per fare visita al resto della famiglia nel Mississippi. Qui, viene linciato in piena notte da un gruppo di persone sia bianche sia nere. Giorni dopo la sparizione, il suo cadavere viene ritrovato nelle acque di un fiume: il film segue la storia della battaglia legale della madre del ragazzo, Mamie Till, che pretenderà di essere fotografata accanto al volto orribilmente deformato del figlio e di comparire sulla copertina di una rivista per sensibilizzare la popolazione di fronte alla violenza razziale nel sud.
Till è un film giusto, corretto, dalle ottime e insindacabili intenzioni; eppure è anche un film profondamente sbagliato. Come ormai capita sempre più di frequente con il cinema americano, è prima di tutto un film pensato come un atto dovuto, il nuovo capitolo di un'antologica opera di riparazione che l'industria cinematografica americana si sente in obbligo di completare dopo anni di distrazione o di mancate priorità.
Da una tragedia americana che coinvolgeva una comunità, uno Stato, una nazione, il film preferisce trarre banalmente l'esempio di una resilienza femminile, individualizzata e adattata allo spirito dei tempi.