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Ninjababy, adottare soluzioni punk per sopravvivere (alla maternità)

Al suo secondo film da regista, la norvegese Yngvild Sve Flikke attualizza la teen-comedy scandinava e sceglie la terapia d’urto per farci entrare nel mondo e nella fragilità di una ragazza irrequieta di oggi. Al cinema.
di Emanuele Sacchi

Kristine Kujath Thorp . Interpreta Rakel nel film di Yngvild Sve Flikke Ninjababy.
sabato 15 ottobre 2022 - Focus

Per approfondire la relazione tra giovani donne e maternità il cinema rimane un luogo di osservazione privilegiato, in cui svelare quel che è (ancora) inconfessabile. Ai timidi accenni di Juno, che nel 2007 raccontava la scelta sofferta di una giovane madre, in cerca della famiglia giusta a cui affidare la propria prole, si sono sostituite figure di teenager o di giovani donne della generazione Z, che non hanno paura di raccontare senza veli le proprie inquietudini. Riguardo alla maternità, quindi, ma anche solo riguardo alla sessualità, tuttora un tabù al pari della precedente.

Tra vittime di abusi costrette ad abortire clandestinamente – Mai raramente a volte sempre – e trasfigurazioni grottesche della maternità – un caso per tutti, quello di Lamb – cresce l’urgenza di dar voce ai dubbi esistenziali o allo stato depressivo che accompagnano il parto, cresce il desiderio di non abbandonare a se stesse, come è stato per secoli, queste donne, ma di dar loro voce.

Ninjababy, secondo film della norvegese Yngvild Sve Flikke, smussa le asperità del soggetto vestendogli i panni della commedia, schietta e veloce, dal ritmo indiavolato; quasi un’evoluzione per il terzo millennio della teen-comedy scandinava e sboccata che Lukas Moodysson aveva codificato nel 1998, con il cult Fucking Åmål – Il coraggio di amare.

Rispetto al mood di allora Ninjababy è meno romantico e più disilluso, preferisce nutrirsi, come un parassita punk, dello spirito di contraddizione dello status quo: questa natura anti- è insieme limite e punto di forza del film, fintantoché la spregiudicatezza della protagonista Rakel può ancora costituire uno choc per i benpensanti. «Volevo costruire un personaggio femminile» – dice Flikke – «complesso, nel quale potersi riconoscere, senza che, per esempio, la sua libido costituisse una questione da dibattere».

Un incipit sul disprezzo verso lo sperma apre a un florilegio di scurrilità e di confessioni sessuali, sciorinate con la naturalezza – che non sempre coincide con spontaneità – con cui si sorseggia un bicchiere d’acqua. Flikke sceglie la terapia d’urto per farci entrare nel mondo di Rakel, salvo poi rivelarci gradualmente il suo lato più tenero e le sue evidenti fragilità, celate sotto una volontà di autoreclusione e di evasione in mondi alternativi, siano essi nel gioco di ruolo fantasy o nel disegno animato. Quest’ultimo sarà il canale di comunicazione con il feto, il “ninjababy” silenzioso e letale, l’unica possibilità per Rakel di risolvere il proprio senso di colpa (non aver desiderato che la bimba nascesse) e di provare a interpretare la volontà della nascitura, non necessariamente divergente rispetto a quella materna.

C’è evidentemente ancora bisogno di una sferzata punk per comunicare la libertà, anche di autodistruggersi, di una ragazza irrequieta di oggi. Segno che il patriarcato è silente ma sempre presente, che nella società odierna occorre compiere ancora molti passi perché si possa discorrere senza preconcetti e senza eccessi di temi sensibili.

Peccato che l’epilogo trasformi il disagio in strumento per la realizzazione dei sogni di Rakel, secondo un copione abbondantemente esplorato: possibile che in un film che si presuppone così iconoclasta l’approdo sia quello consueto dell’american dream, declinato in realizzazione professionale in ambiti artistici e/o creativi? Per abbattere i luoghi comuni occorre ancora servirsi di luoghi comuni, pare, finché i tempi non saranno davvero maturi.


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