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Memory Box, una scatola di ricordi che racconta insieme tante storie, di una vita ma anche di un Paese intero

Il vissuto degli anni ’80 riemerge attraverso oggetti con le cicatrici della prima guerra del Libano. Un’immersione sperimentale e una confessione in un cinema che non può fare a meno dei luoghi, della memoria, della distanza. Presentato alla Berlinale e ora al cinema.
di Simone Emiliani

sabato 16 aprile 2022 - Focus

I luoghi, la memoria, la distanza. Una scatola proveniente da Beirut ricrea un legame strettissimo tra il presente e il passato. Lì dentro ci sono frammenti della vita di Maia, una donna libanese che è emigrata da molti anni a Montréal assieme alla madre e che ha una figlia adolescente, Alex. Ci sono diari, libri, foto, lettere, nastri registrati.

Non è solo un lungometraggio di finzione ma non è neanche un documentario. Memory Box, attraverso quegli oggetti, rimette a fuoco i ricordi: quelli più felici, quelli più tragici, quelli faticosamente soffocati che però poi ritornano anche dopo molti anni. La componente autobiografica è determinante; il film è infatti è liberamente ispirato alla corrispondenza che Joana Hadjithomas ha avuto dal 1982 (anno in cui è scoppiata la prima guerra del Libano) al 1988 con un’amica che è partita dopo l’inizio del conflitto.

Quando l’ha cominciata, aveva 13 anni. La materia del passato diventa essenziale; ci sono infatti anche i quaderni scritti dalla regista che ha diretto il film assieme al marito Khalil Joreige. I due cineasti libanesi, a cui lo scorso Torino Film Festival ha dedicato una personale completa, hanno spesso fatto un viaggio nel passato della storia del proprio paese e in quella personale nei loro quattro lungometraggi. Ci sono cicatrici mai rimarginate, la sofferenza della lontananza ma anche il legame sanguigno che li riporta dentro Beirut. Alcuni luoghi diventano simboli, come il palazzo che sta per essere demolito del loro primo film, Autour de la maison rose del 1999. Oppure come nella parte finale di Memory Box, c’è il bisogno, fisico ed emotivo insieme, del ritorno a casa come in Je veux voir del 2008 dove i due registi, dopo l’inizio della seconda guerra del Libano del 2006 decidono di partire per Beirut assieme a Catherine Deneuve (che per entrambi rappresenta l’icona del cinema) che incontra il loro attore feticcio, Rabih Mroué.

Memory Box usa il cinema per rimettere a fuoco frammenti della propria vita. Un’immersione che porta dalle parti di Richard Linklater in cui, anche le parti ricostruite, partono sempre da una fortissima componente di vissuto. Se nello straordinario Apollo 10 e mezzo il cineasta statunitense usa l’animazione, i due registi libanesi, come in tutto il loro lavoro, utilizzano tecniche sperimentali, mescolano i formati, creano sovrimpressioni e illusioni visive come quelle delle persone che camminano sul mare. C’è il cinema prima delle origini di Étienne Jules Marey e la fotografia che è una componente decisiva. Dentro ogni scatto, ogni istantanea, come in Antonioni, possono esserci dietro altri dettagli che possono emergere una volta messi in evidenza come in quelle foto sviluppate dal negativo che travolgono di nuovo la vita di Maia.

Memory Box racconta insieme tante storie. Un amore unico e tormentato che esplode in tutta la sua passione in quella scena in moto tra Maia e il suo ragazzo di allora che sembrano fuggire da tutto sullo sfondo dei bombardamenti e degli spari.

Ma soprattutto, lì dentro quella scatola, c’è tutto il film. I flashback arrivano prima dagli oggetti e poi dalle immagini. Ogni cosa che c’è lì dentro ha una vita e si porta i segni del tempo che però è anche una fondamentale testimonianza degli anni ’80 in Libano e dell’adolescenza vissuta da Joana Hadjithomas e Khalil Joreige. Ci sono tutte le passioni. I biglietti del cinema, l’elenco dei film segnati sul diario, da Arancia meccanica a Flashdance, Ghostbusters, Il fantasma del palcoscenico e Laguna blu. E poi le canzoni: Fade to Grey dei Visage e One Way Or Another di Blondie.

Uno spaccato lacerante, soggettivo: la casa, il volto della madre. Un cinema di desideri e tradimenti che usa le immagini e le voci come possibile terapia. Già nella parte iniziale, parla già di legami interrotti, con le chat di Alex separata dalle amiche. Forse non è solo un film. È una confessione che potrebbe anche essere lunghissima ma non ci fa più staccare dallo schermo perché (ci) parla direttamente come se ci si conoscesse da anni.


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