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Illusioni perdute, un film in costume? No, un manuale sul presente che ha la nitidezza del grande cinema d’autore

Giannoli catapulta lo spettatore in un girone dantesco di cinismo, spregiudicatezza, e purezza violata. Presentato a Venezia e ora in sala.
di Giovanni Bogani

Xavier Dolan (35 anni) 20 marzo 1989, Montreal (Canada) - Pesci. Interpreta Nathan nel film di Xavier Giannoli Illusioni Perdute.
domenica 2 gennaio 2022 - Focus

“Non posso demolire questo libro: ha forza, ha emozione, è sincero”, dice il protagonista di Illusioni perdute (ora al cinema), giornalista giovane, talentuoso, nella Parigi del primo Ottocento. Nei suoi piani, e in quelli del suo giornale, quel libro avrebbe dovuto stroncarlo. E qui inizia un dialogo meraviglioso, per amarezza, per cinismo, per chirurgica esattezza. Un dialogo fra il giovane giornalista interpretato da Benjamin Voisin e il suo collega, appena più grande, ma già laureato all’università del cinismo, interpretato da Vincent Lacoste, bravissimo.

É sempre questione di punti di vista”, dice all’amico idealista. “Se una frase è tanto bella da sembrare Corneille, ‘probabilmente gli è stata rubata’. Un libro è commovente? Lo definirai sentimentale. È classico? Allora è ‘accademico’. È divertente? Sarà ‘superficiale’. È intelligente? Scrivi ‘pretenzioso’. Se è ben strutturato, è ‘prevedibile’. E se proprio non c’è altro, ci si può appellare alla lunghezza: tutto è sempre troppo lungo!”. I due ridono, liberati dall’obbligo della verità. 

In questo dialogo c’è tutta la scintillante crudeltà, c’è tutta la lucidità di sguardo di Illusioni perdute, il film che Xavier Giannoli ha tratto dalla decima delle “Scene di vita di provincia” di Honoré de Balzac, parte della sua “Commedia umana”. Ed è anche, questa scena, un manuale sul giornalismo, sulla critica.

“Un romanzo è controllato? Manca di fantasia. Al contrario, è fantasioso? La fantasia è incoerenza!” esclama, trionfante, Etienne Lousteau. Non c’è gesto artistico che non possa essere attaccato, irriso, crocifisso. Come oggi sui social. E anche nel giornalismo. Balzac, nel 1837, secerneva veleno contro i giornalisti di allora. Quasi duecento anni dopo, non è cambiato niente. E colpisce ancora più, la sua amarezza, dato che Balzac il giornalismo lo conosceva bene: era lui stesso giornalista, ed era quello il mestiere che dava da mangiare. Ma aveva capito. Aveva capito che il giornalismo, e la critica, sono un’allegoria del mondo. E che il mondo segue delle ragioni che la ragione non conosce. “Nel nome della malafede e della notizia infondata, io ti battezzo giornalista!” annuncia il direttore a Benjamin Voisin.

Come Barry Lyndon di Stanley Kubrick, ambientato alcuni decenni prima – Barry Lyndon è ambientato nella seconda metà del Settecento, Illusioni perdute negli anni Venti dell’Ottocento – questo film è la storia di qualcuno che cerca di entrare nei salotti buoni, venendo dalla provincia, contando solo sulla sua forza. Che si fa strada con la penna, dove l’altro con la spada, in duelli non meno crudeli. Ma che, alla fine, scopre che quell’aristocrazia non lo considererà mai uno dei loro.

Allegoria sul giornalismo, allegoria sul presente. Su come, oggi come ieri, tutto si compri, tutto sia in vendita. Una buona recensione su un giornale; i fiori, gli applausi e i “bravò!” alla prima a teatro, forse persino un titolo nobiliare.
 

Inizi a guardare Illusioni perdute, e pensi: costumi ottocenteschi, cittadine di provincia, parole vergate sulla carta con la penna d’oca che fa criiik, voce fuori campo onnipresente. “Ecco, sono finito in un polpettone in costume”, pensi. Una cosa da serialità televisiva. E invece no. Piano piano vieni travolto da questo film fiume di due ore e mezza, dalle sue acque limacciose, cadi in un girone dantesco di cinismo, spregiudicatezza, e purezza violata. E capisci che il film ha la lucidità di sguardo, la nitidezza del grande cinema d’autore.
 


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