Bong Joon-ho si ispira alla lezione di Marco Ferreri e Claude Chabrol e racconta le scatole cinesi che imprigionano l'umanità nel capitalismo odierno. Palma d'Oro a Cannes e dal 7 novembre al cinema.
di Emanuele Sacchi
Ha inizio con la ricerca disperata di una connessione wifi gratuita la storia della famiglia Kim. In pochi minuti Bong Joon-ho delinea il quadro sociale della vicenda che andrà a narrare e l'importanza che la tecnologia è destinata a svolgere in Parasite. È attraverso gli strumenti della contemporaneità, infatti, che il ceto più abbiente sorveglia, sfrutta e finisce per soggiogare quello più bisognoso, obbligato a un riscatto che passa attraverso l'alfabeto Morse, un linguaggio così obsoleto da diventare un codice segreto, ignoto ai più. Ma contemporaneamente è la tecnologia a consentire ai Kim di studiare nuovi modi di indossare maschere sociali e infiltrarsi così nella famiglia Park, cercando di mungere a più non posso la mucca dell'alta borghesia. Oltre a non attenuare minimamente il social divide, quindi, la digitalizzazione della società rende tanto i Kim che i Park prigionieri dello stesso sistema, che sollecita in entrambi pulsioni insane e competitive, tali da condurre a un inevitabile conflitto. Ma non è più (solo) una questione di proprietà dei mezzi di produzione e di forza lavoro.
Attraverso una commedia dell'inganno che trascolora in tragedia, ispirandosi alla lezione di Marco Ferreri e Claude Chabrol, il regista Bong Joon-ho racconta le scatole cinesi che imprigionano l'umanità nel capitalismo odierno, un panopticon spietato in cui è impossibile distinguere gli esseri umani da cavie da laboratorio.
Niente avviene per caso nel cinema di Bong Joon-ho, e specialmente in Parasite, sovra-scritto e sovra-pensato in ogni minimo dettaglio, per meglio realizzare il progetto dell'autore. Non appartiene al caso neanche la scelta dei nomi delle due famiglie protagoniste: Kim e Park, ossia i due cognomi più diffusi in Corea del Sud. Se il film fosse stato concepito in Italia avrebbero potuto diventare i Bianchi e i Rossi, con aggiunta di ulteriori significati politici alla contrapposizione in atto tra due caste vicine e insieme remote e irraggiungibili.
La convivenza forzata di Kim e Park investe la dimensione privata e mostra in ogni aspetto che "il denaro è un ferro da stiro", come pronuncia nel film il personaggio di Chung-sook. La ricchezza consente di eliminare rughe dal viso e pieghe fastidiose dalla propria personalità, dove ai reietti obbligati a vivere nei seminterrati, come i Kim, toccano cattivo cibo, cattivi odori e persino pipì e intossicazioni da insetticida.
Bong torna su temi sensoriali già affrontati nell'esasperazione da monster movie di The Host, in cui i rifiuti riservati ai ceti meno abbienti sono tangibili e disgustosamente percepibili, mentre una fetta della società vive in una bolla di privilegio e di falsa meritocrazia. Un microcosmo artificioso, in cui i nomi coreani sono accantonati in favore degli americanissimi Kevin e Jessica, alla maniera in cui gli zar a corte parlavano francese per distinguersi dal russo della marmaglia. Ieri in The Host l'America produceva rifiuti tossici che davano vita a un mostro antropofago, oggi in Parasite sono i Kim a svolgere la stessa funzione, rovesciando la quiete dei Park mentre questi arricciano il naso, offeso dall'inconfondibile olezzo di specie umana.