Il regista è consapevole che limitarsi a suscitare la violenza o osservarla da lontano non fa altro che 'derealizzarla' e farla apparire razionale. Al cinema.
di Roy Menarini
Il rapporto tra Hollywood e i registi italiani non ha quasi mai riguardato la competenza sui generi cinematografici. Escluso Sergio Leone, che per C'era una volta in America ha però costruito una coproduzione pienamente interna alla sua poetica, non sono molti i casi di cineasti nazionali che hanno suscitato l'interesse dei produttori oltre oceano per competenze specifiche sul film di genere. Stefano Sollima si guadagna questa prima opportunità americana obbedendo con fedeltà quasi accanita ai dettami tecnico-stilistici (e ritmici) dell'action movie. Consapevole che ogni film di genere, anche quelli che non vengono impreziositi da velleità autoriali (vedi la versione super-raffinata di Suspiria da parte di Luca Guadagnino, quasi un video-artista di fronte a un film di paura), è comunque un'opera politica, segue con scrupolo la sceneggiatura di un big della scrittura come Taylor Sheridan e porta a casa il risultato.
Anzi, curiosamente è proprio lo script a fare parecchia fatica nel competere con la forza narrativa del capostipite, perdendosi confusamente nei nessi di causa ed effetto innescati dal rapimento della giovane figlia del boss. Perché invece, per quanto riguarda Sollima, il comparto regia e messa in scena funziona che è una meraviglia, seguendo principalmente due strade: la precisione degli scontri a fuoco (l'azione) e la concatenazione delle vicende (narratività).
Potendo contare su un montaggio particolarmente efficace, Sollima sembra in Soldado aver rinunciato anche alle già poche divagazioni che si concedeva in Italia, sia nei lungometraggi sia nelle serie televisive. Alcune soluzioni - dalle riprese aeree agli scontri a fuoco vissuti dall'interno dell'abitacolo - sono pensate per ripercorrere la lezione stilistica di Denis Villeneuve e di Sicario, ma anche questa umiltà nell'emulazione di un collega non sembra scuotere Sollima, o metterlo in imbarazzo, o distrarlo dal suo compito.
In buona sostanza, siamo di fronte a un autore che non fa cinema d'autore. Un autore che si esprime completamente dentro al gesto dei suoi personaggi, che si identifica nelle storie che racconta, che rifiuta radicalmente di imporre "marche stilistiche", che può dialogare e persino imitare colleghi internazionalmente più rinomati.
Nell'azione, tutto si gioca sui dettagli e sulla scelta di come organizzare la violenza e lo spazio. Se Peckinpah eccedeva il gesto nichilista enfatizzandolo col ralenti, Leone dilatava il tempo di attesa dell'esecuzione per poi risolverla in pochi secondi.
Se John Woo coreografa la violenza come un balletto, David Leitch usa il piano sequenza e il sound design per evocarne la distruttività. Sollima invece preferisce il realismo: lo scontro a fuoco è soggettivizzato fino a sentirsene parte integrante. In alternativa, basti pensare all'attentato nel supermercato delle prime sequenze del film: le esplosioni dei kamikaze sono al tempo stesso apocalittiche ma circoscritte, sembrano petardi mostruosi e letali, certamente non boati epici di quelli con cui solitamente l'action modifica la realtà percettiva.
Il resto è conflitto continuo. Soldado è nero e pessimista per il semplice fatto di esibire e ammettere la conflittualità in gioco nella guerra alla droga e nella repressione del terrorismo. Idea riuscita, quella di far toccare con mano la galleria di orrore alla viziata figlia del re della droga, rapita e costretta ad assistere a una mattanza che (forse) modifica la sua vita. La violenza va toccata con mano, perché suscitarla o osservarla da lontano non fa altro che "derealizzarla" e farla apparire razionale. Soldado ci spiega che non è così, e Sollima ne esprime gli effetti senza manipolarla. Forse il titolo si riferisce a lui, all'ambizione di essere il cecchino di precisione dentro l'esercito dei registi di genere.