Il piacere di ritrovare il tear jerker nella sua forma migliore, attraversato da una densità narrativa con pochi eguali oggi, pone il film di Chbosky come miglior esempio del genere in questi anni. Al cinema.
di Roy Menarini
Ennesimo trionfo degli anni Ottanta. Assistiamo a un recupero culturale dalle caratteristiche molto più complesse di quelle - meramente citazioniste - della "retromania" o della passione vintage tipiche della postmodernità. Gli anni Ottanta, che sono stati per un paio di generazioni il sinonimo del riflusso e della discontinuità epidermica dopo la grande sconfitta delle lotte degli anni Sessanta e Settanta, mostrano oggi il loro vero volto: un decennio di formidabili intuizioni estetiche, un momento irripetibile di compromesso tra creatività e grande mercato, un crogiolo di stili e modelli dove i prodotti erano ancora in grado di costruire nuovo immaginario.
Prendiamo Wonder. A prima vista - rispetto ad altri oggetti esplicitamente ottanteschi come Stranger Things - il film di Stephen Chbosky non appare particolarmente legato a quel periodo. E invece è palese il riferimento al "tear jerker movie" (film strappalacrime) degli anni Ottanta, non solo per la presenza di Julia Roberts, nata artisticamente in quel periodo, ma anche per la capacità di centrare tematiche famigliari, sociali e culturali con estrema capacità di sintesi.
Il periodo di Voglia di tenerezza, Gente comune, Nemicheamiche, L'attimo fuggente funge palesemente da serbatoio, magari mescolato a un approccio lievemente "indie" nelle scelte di fotografia e montaggio. Non è difficile, peraltro, che la memoria vada anche allo straordinario (e troppo poco celebrato) Dietro la maschera di Peter Bogdanovich, che aveva al centro anche in quel caso un ragazzo dal volto deformato, e costruiva uno potente melodramma intorno alle aspettative del giovane e a una delicata storia d'amore con una cieca, l'unica a non giudicarlo in base all'aspetto.
Materia pesante, come si capisce anche solo a raccontarla. La dimensione patetica, nel senso etimologico del termine, è punto di partenza e d'arrivo per il cinema della commozione, che ha pari dignità rispetto a qualsiasi altro genere o filone hollywoodiano. Wonder recupera dunque una lezione di patetismo frontale e irresistibile, grazie alla quale è davvero arduo che le lacrime non si formino in nessuno dei 111 minuti del film. Se oggettiviamo la potenziale reazione è perché Chbosky riesce miracolosamente a tessere un reticolo emotivo in cui ogni punto di vista che compone i vari capitoli del racconto promette e mantiene un portato emotivo straziante per chiunque, e non solo per i facili al pianto, senza per questo diventare indecoroso o imbarazzante.
Parte di questa lucidità (del progetto e degli occhi che lo guardano) proviene anche dalla dimensione fortemente cinefila che lo innerva.
Il progetto studentesco del piccolo protagonista e dei suoi amici, dedicato alla camera oscura, la dice lunga. Tutto il resto della narrazione è punteggiata da elementi cinematografici: la passione di Auggie per Chewbecca riannoda, anche grazie a un divertente scambio di property, l'immaginario pop alla sua capacità di generare rifugio psicologico per i diversi e i dimenticati; la veloce citazione di La storia infinita insinua la dimensione nostalgica nella famiglia dei protagonisti; la sequenza della serata di Halloween moltiplica, in un gioco di specchi, tutti i riferimenti, visto che Auggie si aggira vestito con la maschera di Ghostface (da Scream) ma riecheggia la formidabile sequenza in cui E.T. cammina vestito come un fantasma in una comunità che, per una volta, non si accorge dell'estraneo in mezzo ai normali.
Insomma il piacere di ritrovare il tear jerker nella sua forma migliore, attraversato da una densità narrativa con pochi eguali oggi, pone Wonder come miglior esempio del genere in questi anni, lasciando a molte miglia di distanza il melodramma young adult stile Colpa delle stelle e i film tratti da Nicholas Sparks.