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Man in the Dark, un piccolo laboratorio di sperimentazione

Classificabile nella categoria dei B-Movie, l'opera seconda di Fede Alvarez si avvale di alcuni ribaltamenti a dir poco sorprendenti nel panorama del thriller-horror. Al cinema.
di Roy Menarini

Man in the Dark

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lunedì 12 settembre 2016 - Focus

Il titolo originale del film, Don't Breathe, si riferisce ai protagonisti ma in fondo allude alla condizione dello spettatore in sala, che non respira per la tensione. Man in the Dark, invece - il titolo con cui esce nelle sale italiane - riguarda il cattivo del film, ma è utile a spiegare il fascino dell'intera operazione, e in effetti è da preferire per una volta a quello originale.

Pur essendo classificabile nella categoria sempre più eccitante dei B-movie contemporanei (sdoganati dal produttore erede ideale di Corman, Jason Blum, e dalla Ghost House di Sam Raimi, che appunto produce Man in the Dark) l'opera seconda di Fede Alvarez si avvale di alcuni ribaltamenti a dir poco sorprendenti nel panorama del thriller-horror.
Roy Menarini

Per esempio, la cecità è un handicap che al cinema ha quasi sempre riguardato i personaggi positivi, garantendo una posizione di perfetta adesione emotiva da parte dello spettatore costretto a guardare con gli occhi spalancati ciò che il protagonista cieco non può vedere, da Gli occhi della notte a Terrore cieco, e mille altri titoli sino alla distopia terrificante di Cecità (prima il romanzo di Saramago, poi il film di Meirelles). Poi si segnala il fatto che il cattivo sia dapprima vittima di una home invasion, quindi diventi lui il carnefice psicopatico da cui difendersi. I cattivi diventano buoni, l'inerme diventa aguzzino, La casa diventa una trappola - e diciamo pure che se il film fosse stato girato durante la guerra in Iraq avremmo probabilmente trovato metafore a go-go sul clima di guerra permanente degli Stati Uniti (visto che in fondo corridoi e cantine danno vita a una guerriglia minuto per minuto).


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Il ruolo stesso della regia, chiamata a sostituire gli evidenti limiti di budget e a sostenere con elementi squisitamente filmici quel che né gli effetti speciali né i valori tecnici di base possono garantire in default. E qui Alvarez, che si era rivelato piuttosto insensibile e rozzo nel remake di La casa, sembra aver parecchie frecce al suo arco. A un certo punto del film, infatti, la macchina da presa - che aveva seguito fino a lì le azioni dei tre giovani in procinto di fare la rapina - si stacca dai suoi soggetti e si mette in relazione con lo spettatore: si muove acrobaticamente per l'appartamento dandoci informazioni preziose (la pistola nascosta sotto al letto), ci regala un vantaggio scopico nel momento in cui la luce scompare (in quel momento né il cieco né i ragazzi vedono più nulla, solo lo spettatore, emulando la nota sequenza degli infrarossi di Il silenzio degli innocenti), gioca a rimpiattino con la simultaneità degli accadimenti, fino a un finale ambiguo quanto morboso.

Il modello sembra essere James Wan, anche se quest'ultimo nel corso degli anni ha raggiunto un magistero di messa in scena ormai clamoroso, sebbene spesso sottaciuto anche dalla critica più attenta.
Roy Menarini

Tornando al discorso produttivo, dunque, in un frangente nel quale ci si lamenta - anche a ragione - delle idee non irresistibili proposte dal settore blockbuster e franchise, questi film americani a piccolo budget, (e non solo gli horror pensiamo all'ottima trilogia di Notte del giudizio), offrono il vero, piccolo laboratorio di sperimentazione sui generi e fanno ben sperare in un cinema americano, se non del tutto diverso, almeno più stratificato.


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