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Il piacere del raggiro

Trucco e dissimulazione in American Hustle.
di Roy Menarini

In foto una scena del film.
Amy Adams (Amy Lou Adams) (50 anni) 20 agosto 1974, Aviano (Italia) - Leone. Interpreta Sydney Prosser nel film di David O. Russell American Hustle - L'apparenza inganna.

domenica 5 gennaio 2014 - Approfondimenti

Nella storia del cinema, non si contano i film dedicati alle truffe e ai colpi gobbi. Anzi, deve essere uno dei pochi sottogeneri che accomuna tutte le cinematografie del mondo, da quella americana a quella europea, dall'Asia all'Australia. Evidentemente, c'è qualcosa di profondo che risuona nell'idea stessa di cinema, ovvero della sua natura più affascinante e mai del tutto sepolta (il trucco ottico, l'illusione, l'infingimento, l'inganno, che sono poi tutte forme di incanto).
La stiamo prendendo larga? Solo fino a un certo punto. American Hustle - si è detto - ruota intorno a una tortuosa faccenda di truffatori e di piani per incastrare altri lestofanti, ma in fondo racconta un pezzo d'America, un periodo storico, una galleria di personaggi. Come se David O. Russel avesse costruito una trama principale quasi come una "scusa" per poter parlare d'altro. Niente di meno vero. La truffa, in American Hustle, è la materia del contendere, e l'inganno si estende fino alle particelle più elementari dei protagonisti. Non siamo, cioè, di fronte a un classico caso di maghi del crimine che giocano a gatto e topo con i tutori dell'ordine (vedi l'esempio del legnoso Now You See Me), ma a personaggi che sembrano l'incarnazione stessa del falso e dell'illusorio. L'incipit del film, con Christian Bale impegnato nella difficoltosa sistemazione del suo toupet, chiarisce da subito la questione: nessuno è al riparo dal trucco, nemmeno quando ci troviamo di fronte allo specchio. Chi poi ha avuto il piacere di godersi la versione originale del lungometraggio, si è trovato di fronte al perfetto accento di Amy Adams nei panni di un'improbabile affarista di origine inglese, poi abbandonato per ritornare all'originaria dizione statunitense, sotto gli occhi dell'esterrefatto agente interpretato da Bradley Cooper. Quest'ultimo, a sua volta, nonostante agisca dalla parte della legge, fa i conti con una mostruosa insicurezza: una vita domestica soffocante, i capelli artificiosamente arricciati, i vestiti attillati, l'ambizione assai più grande delle proprie qualità investigative. Nessuno dei protagonisti è al riparo dai proprio enormi errori di valutazione. L'America è il teatro delle illusioni, gli anni Settanta ne sono l'archivio più appariscente.
Fosse finito nelle mani dei fratelli Coen, uno script del genere avrebbe generato la classica, geniale commedia dell'assurdo dei due registi, piena di personaggi troppo stupidi per essere veri. Russell va in direzione contraria. Questa gente che inganna e si inganna, che continua a cambiare aspetto, abito e acconciatura nella vita vera così come durante le missioni, che combatte un vuoto di personalità sconcertante, lui la consacra, la comprende nel profondo, e la sostiene. Ecco perché da una parte il meccanismo non rischia mai di seminare lo spettatore (cosa che succede spesso con i film di truffa), e dall'altra il tema dell'illusione - verso se stessi, il mondo, e tutti gli altri - giunge al punto di toccare i sentimenti più profondi dei personaggi.
La nozione di trucco, dunque, viene considerata in senso letterale. Se gli uomini sfogano sui capelli le loro esitazioni, le donne scatenano la propria fantasia su tutto il corpo, a cominciare proprio dal trucco del volto, via via fino agli smalti (straordinario il monologo di Jennifer Lawrence sul retrogusto spazzatura del top coat), i rossetti, le scollature, le camicie, le scarpe, i colori e gli accostamenti, gli accessori, i gioielli, le borsette, sempre in sospeso tra kitsch caleidoscopico e citazioni della moda di fine anni Settanta.
Ma tutto questo ha senso, oggi, solamente se si investe il cinema del ruolo che sempre più sta assumendo, quello del catalogo di forme e stili, di archivio dell'immaginario, di evocatore del passato, che gli autori come David O. Russell evocano con l'atteggiamento dell'incantatore di serpenti: loro fanno vibrare certe corde e il cinema sorge, ipnotizzato e ipnotico al tempo stesso.

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