paolo assandri
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venerdì 2 dicembre 2011
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analisi sean penn
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L’analisi dell’interpretazione di Sean Penn in This Must Be The Place, per certi versi “vicina alla perfezione”*, può partire dall’analisi del rapporto artistico tra l’attore e il regista e autore Paolo Sorrentino. Penn in conferenza stampa, riferendosi al suo regista: "Lui era il pianista, suonava il piano e io giravo semplicemente le pagine dello spartito: un onore per me.". L’influenza quasi osmotica che il regista napoletano esercita sui suoi attori attraverso un’attenzione maniacale per i dettagli non è una novità. Il suo storico attore protagonista, Toni Servillo, ama definire “creatività operaia” l’incontenibile foga narrativa e lavorativa del conterraneo, che non lo abbandona mai, nemmeno durante le pause, nemmeno tra un film e il successivo.
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L’analisi dell’interpretazione di Sean Penn in This Must Be The Place, per certi versi “vicina alla perfezione”*, può partire dall’analisi del rapporto artistico tra l’attore e il regista e autore Paolo Sorrentino. Penn in conferenza stampa, riferendosi al suo regista: "Lui era il pianista, suonava il piano e io giravo semplicemente le pagine dello spartito: un onore per me.". L’influenza quasi osmotica che il regista napoletano esercita sui suoi attori attraverso un’attenzione maniacale per i dettagli non è una novità. Il suo storico attore protagonista, Toni Servillo, ama definire “creatività operaia” l’incontenibile foga narrativa e lavorativa del conterraneo, che non lo abbandona mai, nemmeno durante le pause, nemmeno tra un film e il successivo.
Già alla prima visione s’intuisce questa armonia, come se Penn fosse stato in grado di vedere nella mente del regista e di riprodurre esattamente ciò che aveva visto. La trasformazione dell’attore in Cheyenne è completa e definitiva e matura ad ogni nuovo movimento o sfumatura della voce.
Anche nella sequenza finale, quando il rischio che la credibilità del personaggio restasse nell’armadio, accanto ai vestiti da rocker, era altissimo, Cheyenne rimane Cheyenne. Un campo lungo lo mostra avvicinarsi, controluce, lentamente, alla finestra di Dorothy, una di quelle “donne pigre che da ragazzi abbiamo solo sognato”**. Non indossa più la “divisa” punk, ma lo riconosciamo ugualmente, come riconosceremmo un vecchio amico in mezzo alla folla: quella camminata, quel busto reclinato in avanti, quelle mani in tasca, quel sorriso sempre pronto a risolversi in una magica risata.
Sull’andatura di Cheyenne si potrebbe dire molto, ma sembra complicato tentare di capire chi tra regista e attore ne sia il primo responsabile. Infatti, se da un lato è vero che tutti i vecchi protagonisti di Sorrentino si sono sempre contraddistinti per camminate e movenze fuori dal comune (e paiono quindi filiazioni ovvie della sua irrefrenabile fantasia) dall’altro è lo stesso regista a sottolineare cheper Cheyenne il merito sia in gran parte di Penn, il quale ha definito quell’andatura come “la maniera di camminare dei ricchi che si sentono in colpa per essere diventati ricchi”.
Irresistibili anche i tic nervosi del protagonista: il soffiarsi via il ciuffo dagli occhi arricciando la bocca verso l’alto (vedi sequenza del fast food, in cui incontra Rachel) o l’avvicinarsi oltremodo alle persone con cui interagisce (vedi sequenza in cui “analizza” il “pelo nero” sul mento della moglie con gli occhiali impugnati a mo’ di lente d’ingrandimento, o la sequenza nella roulotte dell’ex nazista, quando si avvicina a pochi centimetri dal vecchio per immortalarlo con una compatta).
Cheyenne è nell’aspetto l’antitesi di ciò che è nello spirito, e Penn è lì per dimostrarlo. La corazza che si è costruito addosso e da cui da vent’anni non riesce a liberarsi, è in realtà totalmente inutile. Basta infatti osservarlo bene per rendersi conto della profonda contraddizione morfologia – psicologia che lo abita e lo rende buffo ed innocente, suscitando, da un lato le risate dei “mostri” in cui s’imbatte e dall’altro quel sentimento bukowskiano, misto di compassione e diffidenza, che non possiamo fare a meno di provare nel vedere quel volto segnato dal tempo e dalle fiabe. Una sequenza su tutte: il duetto con il figlio di Rachel: il gioco narcisistico e puerile di due bambini.
*Paolo Sorrentino su Sean Penn, intervista al Festival di Cannes.
**Cheyenne sugli amori adolescenziali, sequenza finale del film.
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jayan
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giovedì 3 novembre 2011
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fatto bene ma freddo e senza veri contenuti
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Dopo "Le conseguenze dell'amore", "Il divo" e altri grandi film di Sorrentino, questo tentativo statunitense, sull'orma del grande "Paris, Texas", non convince affatto. Il film è ben fatto, le riprese eccellenti, l'interpretazione di Sean Penn buona, ma non eccellente, anche gli altri attori sono bravi. Ciò che è estremamente carente è la sceneggiatura, la storia è debole, il film non comunica niente allo spettatore, è freddo e privo di veri contenuti. Sì, c'è qualche bella frase qua e là, ma in mezzo a frasi di pura demenzialità, come nella scena in cui Cheyenne passa con l'auto nella pozzzanghera e bagna un gruppo di persone, scende dall'auto e dice: "Scusate, ma l'ho fatto apposta!".
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Dopo "Le conseguenze dell'amore", "Il divo" e altri grandi film di Sorrentino, questo tentativo statunitense, sull'orma del grande "Paris, Texas", non convince affatto. Il film è ben fatto, le riprese eccellenti, l'interpretazione di Sean Penn buona, ma non eccellente, anche gli altri attori sono bravi. Ciò che è estremamente carente è la sceneggiatura, la storia è debole, il film non comunica niente allo spettatore, è freddo e privo di veri contenuti. Sì, c'è qualche bella frase qua e là, ma in mezzo a frasi di pura demenzialità, come nella scena in cui Cheyenne passa con l'auto nella pozzzanghera e bagna un gruppo di persone, scende dall'auto e dice: "Scusate, ma l'ho fatto apposta!". E poi ci sono troppe riprese al rallentatore. Sembra quasi che il regista goda nel creare qualche effetto per mettere evidenza ciò che è poco importante nella storia... come quando la madre gli passa la cornetta del telefono. L'unica cosa bella sono le musiche. La parte peggiore è il finale, che non posso rivelare, ma che esprime una totale deusione. Ciò che salva il film, ma solo un poco, è il tentativo di rappresentare la metamorfosi che avviene in Cheyenne quando riesce a realizzare la vendetta che il padre avrebbe voluto compiere contro il suo "carnefice" nazista e che, in un modo molto strano e incomprensibile, lo riporta alla vita normale, senza mascheramenti. Lo si può vedere solo come tentativo mal riuscito di fare un capolavoro. Se si è ispirato a "Paris, Texas" è lontano mille miglia dall'opera d'arte di Wim Wenders. Non tutte le ciambelle escono col buco. Questo film è espressione di una mente, dell'intellettualismo astratto di Sorrentino, i sentimenti non sono espressi, anzi sono soppressi. Quel che dice Cheyenne (Sean Penn) non convince nessuno (ma la colpa non credo sia sua ma del regista che così ha voluto che recitasse).
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ultimoboyscout
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mercoledì 30 novembre 2011
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and you'rev standing here beside me...
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Sean Penn è Cheyenne, rockstar 50 enne ormai ritiratasi dalle scene che vive la sua dorata ma annoiata e scazzata pensione in Irlanda. Tornato a New York a seguito della morte del padre, scoprirà che il genitore stava cercando l'ufficiale nazista che ad Auschwitz gli aveva inflitto sofferenze ed umiliazioni e deciderà di proseguire le ricerche iniziando un viaggio attraverso gli Stati Uniti. Viaggio che gli cambierà inevitabilmente la vita, in un percorso tra vendetta e redenzione. Pellicola on the road, intima e fortemente spettacolare tra ricerca del padre ma soiprattutto di se stesso, ritmi pop, atmosfere malinconiche e forte gusto dolce-amaro, un mix che porterà a scoprire una realtà più che sorprendente di cui si può godere solo uscendo dal proprio guscio.
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Sean Penn è Cheyenne, rockstar 50 enne ormai ritiratasi dalle scene che vive la sua dorata ma annoiata e scazzata pensione in Irlanda. Tornato a New York a seguito della morte del padre, scoprirà che il genitore stava cercando l'ufficiale nazista che ad Auschwitz gli aveva inflitto sofferenze ed umiliazioni e deciderà di proseguire le ricerche iniziando un viaggio attraverso gli Stati Uniti. Viaggio che gli cambierà inevitabilmente la vita, in un percorso tra vendetta e redenzione. Pellicola on the road, intima e fortemente spettacolare tra ricerca del padre ma soiprattutto di se stesso, ritmi pop, atmosfere malinconiche e forte gusto dolce-amaro, un mix che porterà a scoprire una realtà più che sorprendente di cui si può godere solo uscendo dal proprio guscio. Penn è al centro del film, tagliato e cucito a sua misura (come i precedenti film di Sorrentino giravano attorno alla maschera di Servillo), ne è il cuore pulsante, dire che l'attore sia magnifico e sublime pè fargli un torto, si fregia di un'interpretazione da Oscar in un ruolo tra i più difficili e bizzarri della sua carriera. Voce sottile, incerta e spezzata, capelli cotonati in stile afro, rossetto e mascara alla Robert Smith, si trucca e si veste come quando si esibiva, un alieno in un mondo conformista dal quale sembra volersi tenere a debita distanza ma che affronterà grazie alla morte del padre. Come ogni road movie che si rispetti, e come ogni opera di Sorrentino, fondamentale è la musica e in particolare la theme song commenta e sottilinea uno dei momenti chiave. Non a caso David Byrne firma la colonna sonora ma appare anche in veste di attore. Nonostante abbia attraversato l'Oceano, Sorrentino mantiene il suo stile intimista con un occhio attento sull'uomo e il suo percorso di vita. Solitudine è la chiave del film. Solitudine è essere una rock star fuori tempo massimo. Solitudine è osare a 50 anni il look dei 20. Solitudine è giocare alla pelota in una piscina vuota. Reagire (o solo provarci) è scoprire che non è troppo tardi. E quel gioco così lieve ma profondo, allucinato ma controllato rende il film davvero unico. Prima parte eccellente, in cui Sorrentino mostra la sua arte di dialoghista, quella del viaggio è meno avvolgente ma pur sempre struggente, ma il difetto vero è il finale troppo affrettato, nel quale il protagonista riesce a ritrovarsi perchè ha avuto il coraggio di perdersi. Coraggiosissimo il regista a confrontarsi con un road movie, lontano dalle sue radicime che non gli ha fatto smarrire la via della creatività ne l'anima. Certo si era trincerato dietro una storia forte, dietro una protagonista femminile importante ma soprattutto aveva immaginato il film per Penn, il quale da far suo infiamma ogni scena. Con rimandi e citazioni tra rock e cinema e un'innata, poetica leggerezza.
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clavius
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giovedì 20 ottobre 2011
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un pasticcio
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Per essere antinarrattivi occorre essere poeti. A uno como Tarkovskij si concedeva tutto, perchè era audace. Ma questa operazione ibrida firmata Sorrentino mi sento di rispedirla al mittente. Per me è doloroso ammettere i limiti di un film realizzato da un regista di cui ho amato in toto tutta la produzione precedente. La storia dell'inebetita rock star che deve fare i conti con la sua vita noiosa ed agiata sta in bilico tra il film intimista(?) e un classico road movie. Fin qui poco male. Ma l'approssimazione della storia che avanza tentennante e farraginosa lascia molte perplessità. L'inverosimile protagonista è ridotto a insopportabile macchietta.
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Per essere antinarrattivi occorre essere poeti. A uno como Tarkovskij si concedeva tutto, perchè era audace. Ma questa operazione ibrida firmata Sorrentino mi sento di rispedirla al mittente. Per me è doloroso ammettere i limiti di un film realizzato da un regista di cui ho amato in toto tutta la produzione precedente. La storia dell'inebetita rock star che deve fare i conti con la sua vita noiosa ed agiata sta in bilico tra il film intimista(?) e un classico road movie. Fin qui poco male. Ma l'approssimazione della storia che avanza tentennante e farraginosa lascia molte perplessità. L'inverosimile protagonista è ridotto a insopportabile macchietta. Pensando al grande Peter Sellers in "Oltre il giardino" ritorna alla mente un personaggio che riusciva ad essere credibile nell'assurdità della storia. Qui si resta basiti per il misto di colpevole ingenuità e di ironica stupidità che costellano tutte le svolte narrative. Svolte che ci sarebbero anche ma che cadono tutte tristemente nel nulla. Non basta l'elegante fotografia firmata da Bigazzi (il miglior direttore della luce che abbiamo in Italia) a salvare una sceneggiatura tanto maldestra. Avrei evitato di ammiccare ad un film come "Una storia vera" di Lynch (quello sì riuscito dall'inizio alla fine), avrei evitato le suggestioni da videoclip, e se si chiama uno dei migliori attori americani lo si fa lavorare su uno script che abbia una qualche consistenza. Oppure si realizza un film di pure suggesioni lasciandosi alle spalle la tradizionale forma racconto, ma in questo caso occorre molto coraggio e una gamma di registri espressivi che sono a mio avviso fuori dalle corde del nostro regista. Nella sostanza mi è parso un film insipido, a tratti irritante dove si incrociano riflessioni infantili sull'autenticità nella vita moderna con considerazioni di nessuna utilità sull'orrore dei campi di concentramento. Un pasticcio.
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erixon
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sabato 5 novembre 2011
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vince il concept sulla sceneggiatura
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Movimenti di macchina da manuale ma ben fatti. Colonna sonora non eccezionale come è stata annunciata ma ben dosata. Attesa dell'azione forzata, il più delle volte immotivata. Scheletro dello scalettone basato su archetipi dell'on the road ma non è un on the road, c'è prevalenza di staticità e lentezza (voluta). Un po' di abuso di dolly, però posso capire la goduria di sventolare quel braccione metallico sulle highway statunitensi. L'unica cosa che apprezzo davvero ma che non funziona e non trapela facilmente è la morale: un figlio perde il padre, una madre perde un figlio, entrambe vivono nel passato, lui per la maturità vissuta nel rock, lei per aver perso il figlio.
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Movimenti di macchina da manuale ma ben fatti. Colonna sonora non eccezionale come è stata annunciata ma ben dosata. Attesa dell'azione forzata, il più delle volte immotivata. Scheletro dello scalettone basato su archetipi dell'on the road ma non è un on the road, c'è prevalenza di staticità e lentezza (voluta). Un po' di abuso di dolly, però posso capire la goduria di sventolare quel braccione metallico sulle highway statunitensi. L'unica cosa che apprezzo davvero ma che non funziona e non trapela facilmente è la morale: un figlio perde il padre, una madre perde un figlio, entrambe vivono nel passato, lui per la maturità vissuta nel rock, lei per aver perso il figlio. Vivono nel passato e soffrono il presente. Una condizione che riguarda tutti i personaggi del film ma anche tutti noi. Figlio che perde il padre, madre che perde il figlio. Vivono nel passato e non sono così distanti da ognuno di noi. L'ho capito dopo qualche ora dall'uscita dal cinema. Il film mi ha appesantito come dodici wurstel annegati in senape e cipolla, dopo averlo digerito mi ha regalato un concetto niente male, un altro modo per dire all'Italia: svegliati! Purtroppo il film doveva essere, a proposito, un po' meno soporifero.
Vince il concept sulla sceneggiatura.
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iacio
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lunedì 17 ottobre 2011
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sorrentino non ha le “mani di forbice”
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This Must Be the Place è come lo sguardo stanco e spento del suo protagonista/attore Cheyenne/Sean Peen (e, aggiungerei, degli spettatori che “forse” si sono svegliati al termine del film!). Cheyenne - ex rockstar, benestante, annoiato e depresso - vive con la moglie e la morte del padre sembra dare un senso alla sua vita: proseguire il viaggio già iniziato dal padre alla ricerca del gerarca nazista che lo aveva umiliato in un campo di concentramento.
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This Must Be the Place è come lo sguardo stanco e spento del suo protagonista/attore Cheyenne/Sean Peen (e, aggiungerei, degli spettatori che “forse” si sono svegliati al termine del film!). Cheyenne - ex rockstar, benestante, annoiato e depresso - vive con la moglie e la morte del padre sembra dare un senso alla sua vita: proseguire il viaggio già iniziato dal padre alla ricerca del gerarca nazista che lo aveva umiliato in un campo di concentramento. Ebbene - durante quel “lento e lungo” viaggio - mentre il protagonista (stando, almeno, alle intenzioni del regista Paolo Sorrentino) avrebbe dovuto ricercare “anche se stesso”, lo spettatore (ancora sveglio!) perde se stesso nella “disperata” ricerca di un “invisibile” filo conduttore che possa dare un senso al film. Il risultato è una pellicola inconsistente e priva di identità, per via di una trama poco lineare ed una regia approssimativa. Paolo Sorrentino non è Tim Burton e, per di più, non ha le “mani di Edward” - affilate come le forbici - per poter affrontare la tematica (troppo complessa e delicata) della “diversità”, che pure sembra sottendere a This Must Be the Place. Quanto a Sean Peen, quel suo “sguardo stanco e spento” è forse sintomatico della ”convinzione” con cui ha interpretato il ruolo affidatogli, tant’è vero che David Byrne, ossia il cantante leader dei Talking Heads, sembra essere l’attore migliore del film, poiché non deve fare altro che interpretare se stesso. L’unica nota positiva del film sembra essere, allora, la colonna sonora: il testo della canzone dei Talking Heads dà, infatti, il titolo al film.
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[+] perchè non cogliere ilmessagggio non verbale ?
(di weach)
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flyanto
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domenica 16 ottobre 2011
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una star in declino alla ricerca di se stesso
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Film sul percorso che una star della musica ormai in declino e fortemente in crisi affronta per giungere alla ricerca di se stesso. A mio parere, Sorrentino qui non riesce affatto nel suo intento, cimentandosi in una tematica a lui poco confacente ed ottenendo così una rappresentazione dalle molte tematiche intrecciate che mai si risolvono. Insomma, il film non decolla mai risultando così in certi momenti persino un pò noioso (a parte alcune esilaranti battute ironiche). L'unico pregio del film, pertanto, è costituito dall' interpretazione (come sempre) dell'ottimo Sean Penn.
[+] ottima interpretazio.....ma troppo noioso
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captainbeefheart
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sabato 21 aprile 2012
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this must be the place: una recensione sincera
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L'ultimo film di Paolo Sorrentino, acclamatissimo al festival di Cannes (poi mi sembra che abbiano premiato un vecchio che passava lì per caso), è approdato nelle nostre sale ad ottobre 2011.
TRAMA: Cheyenne è una ex-rockstar apatica e depressa (sfido chiunque a non a esserlo con una moglie come Frances McDormand, a Dublino, e con la figlia di Bono Vox come unica amica). Fortuna vuole, però, che suo padre schiatta ed il musicista - nonostante si ignorassero da trent'anni - vola al suo capezzale negli USA. Dopodichè Cheyenne imbastisce una serie di cazzate per non tornare in Irlanda tipo vendicare suo padre da un nazista che eoni fa, ad Auschwitz, l'aveva umiliato.
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L'ultimo film di Paolo Sorrentino, acclamatissimo al festival di Cannes (poi mi sembra che abbiano premiato un vecchio che passava lì per caso), è approdato nelle nostre sale ad ottobre 2011.
TRAMA: Cheyenne è una ex-rockstar apatica e depressa (sfido chiunque a non a esserlo con una moglie come Frances McDormand, a Dublino, e con la figlia di Bono Vox come unica amica). Fortuna vuole, però, che suo padre schiatta ed il musicista - nonostante si ignorassero da trent'anni - vola al suo capezzale negli USA. Dopodichè Cheyenne imbastisce una serie di cazzate per non tornare in Irlanda tipo vendicare suo padre da un nazista che eoni fa, ad Auschwitz, l'aveva umiliato. Ignaro, il nostro beniamino, che già soltanto il suo look da Robert Smith falso-giudeo è più svilente di qualsiasi azione del nazi, inizia a vagare per un'America pigra e provinciale per cercare sé stesso. Lo trova iniziando a fumare e maltrattando gli anziani.
CRITICA: I personaggi curiosi che compongono This Must Be The Place sono credibili come la famiglia Cesaroni e, allegoricamente, profondi come un monologo di Ascanio Celestini. La trama, pressoché inesistente, si dilata in modo direttamente proporzionale al sacchetto scrotale dello spettatore senza però mai esplodere emozionalmente come invece succede con la borsa dei coglioni di chi guarda. La storia di un uomo ormai non più famoso che ha subito un arrested development all'età di quindici anni e diventa adulto solo quando viola il domicilio di una vecchietta, distrugge un auto che gli era stata solennemente affidata, manda a spasso un vecchietto nudo in mezzo alla neve, ed inizia a fumare giustifica l'esistenza di programmi quali L'Isola Dei Famosi.
CURIOSITA': Secondo alcune indiscrezioni la prima stesura del film vedeva lo stesso Paolo Sorrentino che si eiaculava addosso per due ore filate con, nel mezzo, i flashback della masturbazione che portatava a quell'orgasmo; idea poi però modificata per giustificare la presenza di Sean Penn. Un'idea comunque intellettualmente più onesta della versione finale.
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derriev
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lunedì 6 agosto 2012
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this must be the...cinema?
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Sorrentino è un regista intelligente, ma a mio parere nel senso commerciale del termine, non artistico.
In questa pellicola recluta una buon dose di "stelle" del cinema americano, addirittura la figlia di Bono degli U2 per un ruolo che poteva andare magari ad una ragazza italiana di un'accademia di recitazione, scelta che però non avrebbe impreziosito ulteriormente il cast... Perché addirittura il regista si preoccupa di scomodare David Byrne per una particina giustificata dal titolo del film stesso.
Commercialmente è tutto ok... davvero...
Quanti saranno andati solo per vedere l'ex leader dei Talking heads, Sean Penn vestito come un pagliaccio, un premio oscar come Francis Mc Dormand, la figlia di Bono?.
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Sorrentino è un regista intelligente, ma a mio parere nel senso commerciale del termine, non artistico.
In questa pellicola recluta una buon dose di "stelle" del cinema americano, addirittura la figlia di Bono degli U2 per un ruolo che poteva andare magari ad una ragazza italiana di un'accademia di recitazione, scelta che però non avrebbe impreziosito ulteriormente il cast... Perché addirittura il regista si preoccupa di scomodare David Byrne per una particina giustificata dal titolo del film stesso.
Commercialmente è tutto ok... davvero...
Quanti saranno andati solo per vedere l'ex leader dei Talking heads, Sean Penn vestito come un pagliaccio, un premio oscar come Francis Mc Dormand, la figlia di Bono?... credetemi: molti!
Poi arriva il film: un'annoiatissima rockstar in pensione che si infila in un accenno di road movie per una motivazione esistenziale che dovrebbe; ed infine lo fa, dare un senso alla sua vita; il tutto infarcito di digressioni stantie e gratuite (l'amico playboy, la ragazzina in cerca del flirt: davvero molto intenso...!)
Ovviamente Sorrentino non perde occasione per fare i movimenti di macchina più originali anche quando non serve, ad esempio per riprendere una telefonata, o per stupirci durante il live dei Talking heads (altra trovata commerciale).
Resta un film insulso, in cui l'immagine forte e la vacuità della storia si sommano per sforzare lo spettatore verso un "significato" semplice, che di per se può essere elevatissimo e nobilissimo.
Ma non espresso in modo così ruffiano.
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renato volpone
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sabato 15 ottobre 2011
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algida sonnolenza
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Il film attraversa gli Stati Uniti con una devastante lentezza, raccontando gli incontri del protagonista con personaggi talvolta assurdi, nella fantomatica quanto mai irreale ricerca di una vendetta per il padre ebreo. Con algida, insopportabile eleganza, la storia racconta di tutto e di niente, moltissimo già visto, facendo calare una noia mortale.
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