Cheyenne (Sean Penn) ha 50 anni ed è un ex rock star che ha perso se stesso. Il suo volto è coperto da una maschera di trucco che alla sera rimuove davanti allo specchio, assieme all’energica moglie (Frances McDormand), sua compagna da 35 anni. Il successo del passato ha dato all’ora emaciato Cheyenne popolarità e denaro, che dopo tanti anni di inattività gli permette ancora di vivere dignitosamente in una grande casa a Dublino che appare, da un punto di vista dell’arredamento, spoglia e semivuota. Nel grande giardino verde che la circoscrive c’è anche una grande piscina che i due coniugi impiegano però per giocare a squash, convinti che sia più divertente che nuotare e basta. Questo e ben poco altro riempie la vita monotona di Cheyenne, oltre alla compagnia della giovane Mary, adolescente problematica e triste per la perdita del fratello scappato di casa, che ha provocato nella madre un vuoto incolmabile e una condizione psicologica sempre più precaria. A sconvolgere e scuotere l’animo del protagonista è una chiamata dagli Stati Uniti: il padre che non rivede da tanti anni sta per morire. Ogni cosa, da allora, prende una piega diversa e il viaggio che Cheyenne è pronto ad intraprendere lo cambierà per sempre.
E’ un viaggio alla ricerca di sé, verso la propria attuale accettazione, quello compiuto da John Smith (vero nome del protagonista) dopo la scomparsa del padre. Un’avventura spinta dalla sola vendetta, quella di restituire ad un nazista la stessa umiliazione che egli ha inferto al padre ebreo negli anni ’40 che finirà per diventare l’esperienza spartiacque tra l’età giovanile in cui il non più giovane Cheyenne si trova ancora immerso, e quella della maturità, della coscienza del proprio essere cessando di fuggire alle proprie responsabilità. Una storia che assume nel suo lento scorrere i caratteri di un romanzo di formazione uniti a quelli del picaresco che attraversa le tematiche più disparate, innescando in Cheyenne una sorta di rivalutazione del proprio vissuto che sfiora a tratti l’autocommiserazione (fenomenale la scena con David Byrne) a momenti di ironia ad altri ancora di semplice apatia. Una riflessione molto delicata e autocritica dell’esistenza: cosa ho fatto? Cosa avrei voluto fare? E come invece è andata? Queste sono solo alcune delle domande che si insinuano nella mente del protagonista, domande che possono scuotere lo spettatore chiedendosi di come si è vissuto il tempo, cosa si è stato fatto in passato e se c’è spazio per qualche rimpianto, che concezione si ha del mondo dell’arte e soprattutto con che occhio si vede chi quella stessa arte ce la propina. Sorrentino ad esempio ha un modo tutto suo di farlo, uno stile comunicativo peculiare che ne fanno uno dei più apprezzati all’estero, adoperando il mezzo con maestria e curando i particolari delle inquadrature fisse e quelle in cui la macchina da presa si muove più o meno lentamente, forse con un po’ di quella spocchia che ricorda Anonion ma che in un cinema carente di idee e innovazione come il nostro di certo non guasta. Criticatissimo non tanto per lo stile di regia quanto per i contenuti effettivi dei suoi film in cui secondo i detrattori l’estetica piuttosto che arricchire, sopprime il significato e il messaggio dell’opera. This must be the place che è sin dal titolo un tributo esplicito ai Talking Heads, la cui canzone omonima accompagna i momenti più carichi di intensità drammatica del film, oltre a racchiudere il finale in cui si giunge al nazista e si può finalmente esclamare “Deve essere questo il luogo”. E’ a mio avviso il film più maturo ed equilibrato del regista napoletano, un capolavoro in cui la musica viene utilizzata come meglio non farà nemmeno nei lavori futuri, e la potenza delle immagini è proporzionata al contenuto assumendo un valore che non è mesto decoro bensì la candida rappresentazione emotiva del protagonista, sublime lavoro fotografico di Luca Bigazzi. La tanto criticata spocchia da macho intellettuale che nutre l’effimero piacere della visione in maniera ridondante e forzata è ridotta qui ai minimi termini e le scene sono funzionali alla narrazione senza farla traboccare di trovate fini a se stesse. Qualche rassomiglianza tra Cheyenne e tutti gli altri personaggi della filmografia sorrentiniana, uomini problematici e solitari, alienati nella penombra, o intellettuali disillusi, in particolare con L’uomo in più, lavoro primo del regista che ci ha inoltrati nel declino di due star. Personalmente vedo a This must be the place come ad una versione matura di quel film, in cui il protagonista ritrova la redenzione personale e la riscoperta dei valori nel pieno della sua discesa. Più di una nota di merito va a Sean Penn, che dopo l’oscar per Milk ci ha regalato quella che da diversi anni è la sua ultima grande interpretazione in un ruolo impegnativo.
Voto 8.5
Danko188
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