Irlanda, oggi. Cheyenne (Sean Penn) è un’ ex rockstar americana in “pensione”. Ha scelto la tranquilla isola per trascorrere, insieme alla moglie, la seconda fase della sua vita, pur indossando ancora i panni dell’ eccentrico quanto apparentemente stralunato musicista quarantenne. La sua vita scorre lenta, tra la spesa al supermarket, una chiacchierata con l’ amica Mary, una puntata in borsa ed espressioni filosofiche sulla vita. Il tutto con un modo di parlare al quanto singolare ed accompagnato sistematicamente da un trolley da viaggio.
La sua quotidianità verosimilmente noiosa e cadenzata, viene sconvolta dalla notizia della morte del padre. Cheyenne, dunque, decide di partire per l’ America, lasciandosi alle spalle la moglie (Frances McDormand, sempre efficace), la già citata Mary (amica oppure sorella?) ed una donna della quale allo spettatore, fino alla fine del film, non è dato conoscerne il ruolo.
Inizia a questo punto un viaggio non solo materiale, ma di introspezione, di conoscenza, di solitudine ed al contempo fatto di nuovi incontri, con il fine ultimo di scovare un gerarca nazista che ha umiliato suo padre in un campo di concentramento durante la Seconda Guerra Mondiale.
Tralascerò il proseguire del film ed il suo finale, lasciando spazio ad un’ analisi approfondita. Parto col dire che ormai è indiscutibile il talento artistico del regista Paolo Sorrentino, attualmente il migliore in Italia. In secondo luogo non si può non spendere qualche riga sulla prova sontuosa di Seann Penn, semplicemente straordinaria e meritevole di premi di ogni tipologia, Academy Award compreso. Il protagonista di Milk veste i panni dell’ ex star come lo fosse stato per davvero, ispirandosi alla figura di Robert Smith dei Cure. Faccio notare che val la pena vedere questa pellicola anche in versione originale in quanto Penn è autore di un falsetto incredibile, oltre che irripetibile, lungo tutta la durata del lungometraggio. La fotografia bellissima del veterano Enzo Bigazzi, unita ad una scelta delle location davvero azzeccata, fanno raggiungere all’ opera i crismi del capolavoro. Le frasi che pronuncia il nazista mentre un incedere ripetuto della camera indugia sullo stesso, rappresenta una delle cose più belle ed innovative del Cinema degli ultimi 30 anni. Ad accompagnare il tutto, una colonna sonora di gran livello capeggiata dal brano che dà il titolo al film, interpretato da vari artisti nonché riproposto dall’ autore David Byrne in una sequenza live davvero eccezionale. La frase cult è senza dubbio "non sto cercando me stesso…sono in New Mexico, non in India", ma ce ne sono due ripetute più volte, ovvero “non è vero, ma è bello che tu me lo dica” e poi “qualcosa mi ha disturbato, non so bene cosa, ma qualcosa mi ha disturbato..." le quali ci consegnano una caratterizzazione del personaggio fatta di debolezza, fragilità ma anche di sorprendente e spiazzante semplicità. Il colore che si vede più frequentemente in This must be the place è il verde, come la speranza. Esattamente come quella mai persa da Olwen Foere, alias la madre di Mary, la quale attende disperata qualcuno, un qualcuno andato via non si sa fino a che punto fisicamente oppure spiritualmente. La speranza mia e spero di tutti, invece, è quella che vengano prodotti più frequentemente film di questo calibro, meglio ancora se fatti da noi italiani, maestri cineasti che non dovremmo invidiare nulla a nessuno ma che per troppo tempo siamo rimasti aggrovigliati tra cine-panettoni ed inutili manuali amorosi.
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