L'attore francese, volto da combattente marcato dalla vita e corpo massivo alla Jean Gabin, è protagonista della serie su MYmovies ONE Of Money and Blood.
di Marzia Gandolfi
Come si affronta la montagna Vincent Lindon, personalità engagé che fa corpo coi suoi ruoli?
Come scalare quella figura robusta e ben piantata? Come descrivere quel volto da combattente marcato dalla vita, quell’aria da cane bastonato? Come dire quella voce arrochita da fumatore, quella cinegenia e quel fisico massivo alla Jean Gabin (o alla Lino Ventura), che lo rendono uno dei pochi attori francesi contemporanei prossimo agli americani e alla scuola dell’Actors Studio, per quella maniera di imporsi sullo schermo come presenza poderosa piuttosto che con le usuali seduzioni teatrali e letterarie proprie degli attori dell’esagono. Potremmo cominciare dalla sua fedeltà, Vincent Lindon ha recitato più volte sotto la direzione di Claire Denis, Claude Lelouch, Coline Serreau, Pierre Jolivet (il primo a lavorare con la dimensione fisica dell’attore), Benoît Jacquot o Stéphane Brizé. La sua ‘presenza’ minerale, la naturalezza propriamente lavorata, gli permettono di interpretare tutto o quasi: i proletari, come accade sovente con Pierre Jolivet, i borghesi per Benoît Jacquot o Claire Denis e gli uomini di buona volontà che possono portare sulle loro larghe spalle un’intera questione sociale o politica per Philippe Lioret (Welcome) o Stéphane Brizé (La legge del mercato). Attore fisico e osservatore ossessivo, ha la statura per interpretare personaggi celebri come il dottor Charcot (Augustine) e Rodin (Rodin) o per uscire dai binari e cimentarsi in esperimenti rischiosi come l’incredibile Pater di Alain Cavalier, un oggetto inclassificabile che è insieme documentario tra amici, finzione politica, funambolismo cinematografico, paradosso dell’attore, sperimento da laboratorio. Girare con Lindon vuol dire impegnarsi in una relazione duratura, anche dopo la fine del film. Tredici anni dopo Pater, pranza ancora due volte al mese con Alain Cavalier. Ma è con Stéphane Brizé che forma la coppia del cinema più rilevante, inaugurata con Mademoiselle Chambon e proseguita con la ‘trilogia del lavoro’ (La legge del mercato, In guerra (guarda la video recensione), Un altro mondo), un’esperienza radicale fatta di impegno, pudore e la stessa sensibilità alla violenza sociale.
Grande gueule, così i francesi definiscono le ‘grandi facce del cinema’, Lindon incarna al cinema l’uomo contemporaneo dalla fragilità manifesta, guardare Of Money and Blood su MYmovies ONE per credere e comprendere il suo metodo che utilizza i gesti emblematici di un mestiere - nella serie di Xavier Giannoli è magistrato a capo di una sezione dell’ente doganale specializzata nelle truffe finanziarie – integrati a forza di osservare. Adattando il libro inchiesta di Fabrice Arfi, sullo scandalo della carbon tax, ecotassa che nel 2009 si tradusse in una formidabile opportunità di speculazione, Giannoli sonda un meccanismo di menzogne e di liberalismo à côté del magistrato di Vincent Lindon, impeccabile nell’abito scuro e divorato dal di dentro. La figura densa e opaca, lo sguardo intenso e severo, l’animo probo e la potente interiorità compongono un uomo di legge abitato, concentrato, sempre alla ricerca, all’erta, con la mente e il corpo interamente concentrati su un sistema senza scrupoli, che collega il micro e il macro. Le dimensioni si intrecciano fino alla vertigine: dall’interesse personale immediato al bene comune più grande sullo sfondo delle preoccupazioni ecologiche e del futuro del nostro pianeta. Monolite morale del film, contro cui frangono rovinosamente due truffatori da strada (Ramzy Bedia e David Ayala) e un trader da salotto (Niels Schneider), il personaggio di Lindon è ossessionato dal desiderio di giustizia. Se Bedia, Ayala e Schneider, in movimento costante, incarnano l’inconsistenza del sistema finanziario e la facilità delle frodi, Lindon è un macigno, la barriera, lo sbarramento, il giustiziere stanco che non smette di riparare il mondo. Impossibile non sbatterci contro, la corda sociale dell’attore vibra di nuovo, più forte che mai.
Partendo da un soggetto minimale, l’incontro di un uomo e una donna in un ingorgo stradale, Claire Denis dirige un esercizio di stile, tanto fisico quanto mentale. Vendredi soir assomiglia a una sfida cinematografica: due personaggi, due attori famosi che devono far dimenticare la loro immagine, e un breve incontro, unità di tempo (una notte) e di luogo (una stanza). Laure (Valérie Lemercier) sta traslocando e chiude coi pacchi le ultime ore di giovane donna indipendente, poi sale in macchina per raggiungere il compagno in periferia. Ma quella sera a Parigi c’è uno sciopero generale. Bloccata in auto prende a bordo un pedone, Jean (Vincent Lindon). Finiranno per passare la notte insieme e dentro un’opera di dilatazione del tempo e di tutti i dettagli che compongono la realtà soggettiva del momento. Lindon coltiva il minimalismo formale che esalta la complessità del suo personaggio. Se Lemercier è una fiamma pronta a divampare, Lindon spinge all’estremo un’economia di recitazione già apprezzata altrove.
Pater è il risultato dell’incontro al vertice tra Alain Cavalier e Vincent Lindon, che si sottopone volontariamente a un curioso esperimento di laboratorio. Alain Cavalier ha liberamente stabilito le regole del gioco: lui avrebbe interpretato il Presidente della Repubblica francese e Lindon il suo Primo Ministro, incaricato di attuare misure sociali urgenti. Alcuni accompagnatori (autista, consigliere, etc) forniscono lo scarno protocollo del film e il decor si accontenta di appartamenti personali, uno è quello del regista. La politica è una metafora, il terreno di un gioco che la comprende e la supera. Di quel gioco, Vincent Lindon è la cavia e il film un tentativo di ‘esaurire’ la relazione attore-autore, attraverso il desiderio di costruzione democratica e di utopia fraterna dell’immaginazione. Grazie a un’esile suggestione narrativa, le identità dei protagonisti scivolano per tutto il film dallo ‘stato civile’ a quello fittizio, quando non sono sospese tra i due, in uno stato nebuloso che conferisce al film una sorprendente fluidità. Che ruolo gioca Vincent Lindon quando afferma con indignazione di non aver mai fatto il minimo compromesso nella sua carriera?
Il debutto del film infila l’atelier di uno scultore, tra tendaggi, bozzetti accatastati, impiegati indaffarati e Rodin, pesante, massiccio, come fatto di un unico blocco di carne, che va e viene, studiando, misurando, confrontando… Vincent Lindon, solido come una roccia, accetta la sfida di Jacques Doillon e incarna uno scultore al lavoro, un mostro gorgogliante dietro alla barba folta mentre immergere una lunga vestaglia nel gesso, la bagna, la impasta e l’avvolge, ancora gocciolante, intorno alle spalle del suo Balzac, la statua che i suoi contemporanei amavano odiare. L’aggiusta, la tormenta e la guarda come se la sua vita dipendesse da quella. La scultura come sport da combattimento. Doillon si sofferma su Lindon, il suo Rodin, che contempla il suo Balzac prendere forma. Esistere. Il film produce un gioco di specchi successivi tra Balzac e Rodin, Rodin e Doillon, Doillon e Lindon... Dall’uno all’altro, dalla scrittura alla scultura e poi al cinema, lo stesso lavoro bello e travolgente: incarnare l’idea, realizzandola.
La loro relazione artistica comincia nel 2009 con Mademoiselle Chambon, storia d’adulterio ordinaria ma singolare per il suo trattamento secco e sottile. Ma poi Stéphane Brizé passa ad altro, a una trilogia che combina sullo stesso argomento (il lavoro) tre punti di vista: quello del disoccupato ribelle (La legge del mercato), quello del sindacalista che rifiuta di arrendersi (In guerra (guarda la video recensione)) e quello del dirigente sotto pressione (Un altro mondo). Tre film che ne formano uno solo, perché ogni film è nato da quello precedente. Descrivono la stessa situazione di conflitto tra direzione e rappresentanti sindacali, ma sono costruiti in controcampo: da una parte il lavoratore e il sindacalista, dall’altra il padrone. Tre personaggi di umanità incandescente incisi nel granito, ciascuno di loro è il pilastro centrale di una storia, e un solo corpo, quello di Vincent Lindon ficcato nel mondo del lavoro e martoriato da un capitalismo violento. Tre eroi che sembrano passarsi il testimone di film in film, dandosi pacche sulle spalle per sopportare l’indifferente crudeltà di un sistema e della società. Vincent Lindon incarna la crisi avanzando molto lentamente per non farsi beccare, fa un piccolo passo alla volta. Il suo unico segno di ponderazione, il resto è un blocco di tensione, passione ed emozione. Deliberatamente privato delle sue prerogative abituali (naturalezza, eloquenza, esplosività, temperamento, slancio nervoso) si ‘lascia andare’ tra attori non professionisti e in scene che a loro volta riproducono piuttosto che trasfigurare la stretta realtà delle cose.
Titane è il racconto di una mutazione. Ovvero come gestire un corpo che la natura ci costringe a esibire e sopportare? Graffiata, sfregiata, danneggiata, mangiata, succhiata, la carne subisce mille oltraggi. Del resto, Julia Ducournau è la regina del cinema carnivoro. Nel suo mondo la minaccia è permanente: i bambini scompaiono, i crimini sono efferati... Alexia, una donna-bambina, sembra totalmente inadeguata, sta scoprendo l’alterità ma non sa cosa fare. Il film procede per blocchi, esaurendo tutta la normalità per creare il proprio caos. Poi arriva Vincent Lindon e Titane inchioda, si incendia. L’attore entra in campo come un animale ferito. Tellurico e affilato dalle ore in palestra, interpreta il capo di una pattuglia di giovani pompieri. È triste come la notte senza luna del film e il suo incontro con Alexia si trasforma in un’ossessione affettiva. Di titanio e oro, Vincent Lindon è come non lo abbiamo mai visto prima, un montante e un grido d’amore, un corpo drogato di steroidi che soffre e si innamora in circostanze improbabili. Come Lindon, Titane non assomiglia a nient’altro che a se stesso, è una favola con una sola posta in gioco: la fede.