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Willem Dafoe: «In Povere creature! creo un mostro del quale ci si innamora»

Intervista a Willem Dafoe, il dottor Godwin di Povere creature! di Lanthimos. Dal 25 gennaio al cinema.
di Giovanni Bogani

Willem Dafoe (68 anni) 22 luglio 1955, Appletown (Wisconsin - USA) - Cancro. Interpreta Godwin Baxter nel film di Yorgos Lanthimos Povere Creature!.
domenica 21 gennaio 2024 - Incontri

Quando, a Venezia, vedemmo Emma Stone camminare sghemba, sganasciata, come un pupazzo rotto, con gli arti fuori controllo e gli occhi fuori dalle orbite, fu una fucilata al cuore. Una fucilata al cuore lunga come un film. Perché lei, fotogramma dopo fotogramma, imparava a camminare, a guardarsi intorno, a vivere. E noi imparavamo ad amare il film. E, in qualche modo, eravamo grati a quel “mad doctor”, a quel dottore pazzo che l’aveva inventata, che l’aveva strappata al Nulla, che l’aveva fatta tremare, inciampare e vivere, sempre più padrona di sé, sempre più splendente, piccolo mostro di Frankenstein al femminile. 

    Emozione, entusiasmo, la sensazione di vedere qualcosa di nuovo, di coraggioso, di unico. Di sghembo, di asimmetrico, ma di profondamente vivo, di intimamente travolgente: Povere creature! di Yorgos Lanthimos, creatore di sublimi abissi della visione e dell’esperienza, da The Lobster al Sacrificio del cervo sacro (guarda la video recensione) a La favorita (guarda la video recensione). Era piuttosto chiaro: il film sarebbe andato dritto verso il Leone d’oro. Poi un rosario di premi: i più recenti sono i Golden Globes – quello vinto come miglior film commedia e quello vinto da Emma Stone come miglior attrice in un film commedia. 

Povere creature! esce in Italia, giovedì 25. E a presentarlo, a Roma, si affaccia al cinema Barberini il dottor Godwin Baxter. Ovvero Willem Dafoe. Attore di immenso talento, consacrato pochi giorni fa dalla stella sulla Hollywood Walk of Fame: e, ormai da quasi vent’anni, americano “de Roma”, sposato con la regista Giada Colagrande, con una casa nella bohème artistica e cinematografica di piazza Vittorio, e un regolare passaporto italiano. 


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Figlio del Wisconsin, cresciuto artisticamente a New York, Willem Dafoe ha ricevuto quattro nomination all’Oscar. La prima per Platoon. Poi ha scolpito il suo volto segnato dalle rughe, ma anche da occhi innocenti come quelli di un bambino, nel pubblico di tutto il mondo: Gesù rivoluzionario ne L’ultima tentazione di Cristo di Martin Scorsese, poliziotto antirazzista nell’America brutale degli anni ’60 in Mississippi Burning, tormentato Pasolini per il suo amico Abel Ferrara. Ha vinto la coppa Volpi a Venezia con la sua interpretazione di Van Gogh (guarda la video recensione) per Julian Schnabel. E ora, per Lanthimos, è il tormentato chirurgo che ridà la vita ad una giovane donna annegata nelle fredde acque del fiume Clyde.

    Dafoe, lei è figlio di due chirurghi. Ha avuto un qualche ruolo, questo fatto, nell’aiutarla a tratteggiare il dottor Godwin?
    “Non lo so. Ma certo, sono cresciuto fra strumenti medici e ospedali, e persone malate che tentavano disperatamente di tornare sane. Conosco certe sensazioni. E non mi fanno paura. In molti, all’idea di entrare in un ospedale, si sentono male, a disagio. Per me è il contrario: mi sento a casa”.

    Che differenza c’è fra lei e il dottor Frankenstein?
    “E’ chiaro che l’ispirazione del personaggio è quella. Ma il ‘mostro’ che creo, nel film, è un mostro del quale ci si innamora”.
 


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Willem Dafoe alla presentazione del film Povere creature! a Roma.

Ma gli uomini, per lei, sono davvero così fragili, sconfitti, perdenti rispetto alle donne, come ci mostra il film? E quale possibile “salvezza” vede per i maschi?
    “Ah, non ho risposte per salvare gli uomini: non ne ho neppure per salvare me stesso! Posso solo dire che trovo evidente che le donne siano sentimentalmente molto più forti degli uomini: per questo motivo gli uomini hanno cercato, per secoli, di tenerle sottomesse. Perché conoscono la loro forza”. 

    Come è stato entrare nel personaggio del film?
    “Lanthimos non crea personaggi: crea mondi. E tu devi entrarci dentro. Non ti dice ‘come’ interpretare un personaggio: sei tu che devi trovare il modo per entrare dentro quel personaggio, quella atmosfera, quell’universo. È un regista di poche parole. Preferisce, semmai, prenderti in giro. Ma ti lascia da solo, a guardare il mondo che lui a creato, e a reagire ad esso”. 

    Che cosa ha significato per lei la stella sulla Walk of Fame di Hollywood?
    “La prima cosa che mi viene in mente è: mi ha fatto sentire parte di una comunità. Vede, io ho fatto tanti film, ma di generi diversi, con registi diversi, in paesi diversi. Non sono mai stato sicuro di me, non sono mai stato sicuro che ci fosse qualcuno che conoscesse il mio lavoro, che lo apprezzasse. Invece, ascoltando i discorsi che hanno fatto, nel momento di collocare la stella – discorsi fatti da persone con cui ho lavorato, Pedro Pascal, Patricia Arquette – ho capito di essere parte di una comunità. Ho capito che non ero da solo, in questo percorso che sto facendo. E ora mi è venuto l’altro problema”. 

    Quale?
    “Il pensiero più difficile da accettare: l’idea che quella stella, lì sul marciapiede a Hollywood, mi sopravvivrà”. E ride, anche stavolta di un sorriso innocente, come quello di un bambino. 


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