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La politica degli autori: Guy Ritchie

Da Snatch a Sherlock Holmes, la risposta british alle tendenze americane.
di Mauro Gervasini

In foto il regista britannico Guy Ritchie.
Guy Ritchie (Guy Stuart Ritchie) (55 anni) 10 settembre 1968, Hatfield (Gran Bretagna) - Vergine. Regista del film Sherlock Holmes - Gioco di ombre.

mercoledì 14 dicembre 2011 - Approfondimenti

Guy Ritchie (Hatfield, Gran Bretagna, 10 settembre 1968) è come si suol dire un regista di culto. Ce ne siamo fatti una ragione. Esistono su questa Terra molti fan, in particolare appassionati di Snatch – Lo strappo (2000), il suo titolo più amato e personale. Non abbiamo statistiche certe, ma lo diciamo per esperienza: uno spettatore giovane, non particolamente cinefilo, che dalla Settima arte cerca spettacolarità e coinvolgimento, preferisce Snatch a Pulp Fiction, perché di più immediata fruizione. Il paragone non è casuale: nell'immaginario di molti i due film sono complementari per il lavoro sul linguaggio, mentre secondo la vulgata giornalistica Guy Ritchie sarebbe «il Tarantino europeo». C'è del vero? Ma neanche per sogno, anzi è difficile trovare stili così caparbiamente agli antipodi. Guy abusa della retorica cinematografica declinata all'action, a partire dai ralenti che dilatano le scene d'azione fin quasi a congelarne i frame, per poi rilasciarli a una velocità doppia: rivedere l'incontro di pugilato a mani nude del primo Sherlock Holmes (2009) per farsi un'idea precisa del procedimento. Quentin è invece un iperrealista rigoroso, lascia che diventi (per qualcuno) estenuante il divenire della propria sequenza d'azione e non accelera, non rallenta, colpisce duro lavorando su tempi non manipolati. Per dirne una, perché le differenze sono infinite. Casomai soffia sul cinema di entrambi lo stesso respiro moderno; spiazza, di tutti e due, l'utilizzo dello slang e l'invenzione di personaggi (di solito armati e letali) impalpabili, se non nell'universo autoreferenziale della celluloide. In questo, Ritchie e Tarantino procedono spediti come due binari paralleli. Il traguardo è lo stesso ma non si incontreranno mai. Chiusa parentesi.

Esce Sherlock Holmes – Gioco di ombre, seconda puntata delle avventure del detective creato da sir Arthur Conan Doyle, interpretato da Robert Downey Jr. con Jude Law nei panni del fido, "elementare", Watson. Muore il principe d'Austria, vittima di un ampio complotto ordito dal solito Moriarty; Sherlock intuisce che non di suicidio si tratta, si allea con una cartomante interpretata da Noomi Rapace, combatte all'ultimo sangue contro il nemico di sempre. Prevedibile un nuovo grande successo, dopo il trionfo tutto sommato inatteso del primo Sherlock Holmes (210 milioni di dollari incassati in Usa). Del cinema di Ritchie può non piacere lo stile grossolano, ma dobbiamo ammettere che la sua rilettura del celebre personaggio, basata sulla graphic novel di Lionel Wigram, è assai interessante. In poche parole, ha fatto la cosa più semplice strappando Holmes all'iconografia polverosa di cinema e tv per restituirlo all'originale letterario. Il Sherlock di Doyle, infatti, al contrario dell'immagine consegnata ai posteri da Basil Rathbone, impassibile e riflessivo come Mario Monti, è giovane, dissoluto, tira di boxe, è un ottimo schermidore e ha con Watson (uomo d'azione ex militare di Sua Maestà) un rapporto quasi paritario. Esattamente come tra Downey Jr. e Law.

Con l'eccezione di Travolti dal destino (2002), imbarazzante remake di Travolti da un insolito destino nell'azzurro mare d'agosto di Lina Wertmüller fortemente voluto dalla ex moglie Madonna, a Ritchie interessa soprattutto ridefinire l'immagine di Londra al cinema. Nonostante la "complicità" di Hollywood nelle produzioni, i suoi action movie propongono una risposta british alle tendenze americane. A partire dalla lingua: con Lock & Stock – Pazzi scatenati (1998), notevole esordio, si riappropria di uno slang non del tutto sconosciuto al grande schermo (Il giorno del venerdì santo, per citare un classico) ma di cui si era persa memoria. Il cokney delle classi popolari, dei bassifondi, delle prigioni: un inglese bastardo fieramente parlato da Jason Statham, attore feticcio dell'autore (ma anche dall'ex calciatore Vinnie Jones). Campione nazionale di tuffi, appassionato di arti marziali miste, Statham ha certamente contribuito al successo di Ritchie, oltre a rappresentare una sorta di trait d'union con Luc Besson, cineasta per certi versi vicino al collega inglese e con il quale scrive e produce il non eccelso Revolver (2005). Dopo il successo di Snatch – Lo strappo un nuovo stile pare codificato: umorismo nero, personaggi sopra le righe, macchina da presa frenetica, montaggio da videoclip, colonna sonora fracassona, un ritmo che non dà tregua. Invece non sempre la formula funziona, come dimostrano successivamente Revolver (rimontato per il mercato americano) e soprattutto RocknRolla (2008), micidiale pasticcio privo di un baricentro narrativo che enfatizza i toni grotteschi dei titoli precedenti lasciando tiepidi anche i fan. Il gangster movie di Ritchie, così caleidoscopico, è paradossalmente archiviato proprio dal detective più celebre della storia d'Inghilterra, Sherlock Holmes, nella rielaborazione del quale il regista pare avere trovato una cifra personale più controllata.

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