Kim Ki-duk ritrae una nazione divisa e in perenne stato di guerra, utilizzando, a modo suo, la grammatica del thriller. Dal 12 aprile al cinema.
Nam Chul-woo è un povero pescatore nordcoreano che nella sua barca ha l'unica proprietà e l'unico mezzo per dare da mangiare a sua moglie e alla loro bambina. Un giorno gli si blocca il motore mentre sta occupandosi delle reti in prossimità del confine tra le due Coree e la corrente del fiume lo trascina verso la Corea del Sud. Qui viene preso sotto controllo delle forze di sicurezza e trattato come una spia. C'è però chi non rinuncia all'idea di poterlo convertire al capitalismo lasciandogli l'opportunità di girare, controllato a distanza, per le strade di Seoul.
"Mi sento più sudcoreano o più coreano? Mi sento, semplicemente, coreano. (...) Il mondo, magari, lo scopre adesso, ma per noi coreani la divisione è una ferita che sanguina da 70 anni. Mio papà ha combattuto in guerra, io sono nato quand'era già finita, però ho fatto il militare e, nell'esercito, mi spiegavano ogni giorno che il mio nemico si chiamava Corea del Nord. (...) Con Il prigioniero coreano ho voluto mostrare un paradosso: guardate come sono simili Nord e Sud. 'Là' c'è la dittatura, 'qui' la violenza ideologica".
Diretto Kim Ki-duk e presentato alla 73. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia, Il prigioniero coreano (guarda la video recensione) - di cui presentiamo in anteprima oltre 6 minuti - sarà al cinema da giovedì 12 aprile. Lontanissimo dalle tinte forti dell'Isola o di Moebius, il regista parla del presente e di una nazione divisa e in perenne stato di guerra, utilizzando - ovviamente a modo suo - la grammatica del thriller.