Quei due punti che dividono "Mission" da "Impossible" rimarcano chiaramente la differenza che molte traduzioni italiane frettolosamente snobbano. Ovvero non si tratta di una "missione impossibile" (quindi "impossible mission") ma di una missione il cui obiettivo è l'impossibile. Molto più arrischiato, pericoloso e quasi onirico. La missione non è impossibile. È l'impossibile stesso.
Fin dal primo capitolo, è dunque parso che l'impossibile fosse duplice. Costruire una serie cinematografica in grado di rivaleggiare con James Bond, ripescando alla lontana una produzione televisiva degli anni Sessanta/Settanta; e soprattutto costruire un nuovo prototipo di action iper-tecnologico che desse conto delle trasformazioni epocali che il digitale stava procurando alla narrativa di spionaggio, senza per questo rinunciare all'avventura più emozionante, quella del corpo umano.
Tom Cruise a sua volta ha trovato in Ethan Hunt l'alias forse più perfetto per una pratica attoriale lucidissima, in cui il contestato ruolo di star capricciosa e tutte le bassezze emerse dal rapporto con Scientology vengono riscattate da un'ironia di fondo e da un ragionamento formidabile sullo statuto della star post-quarantenne nell'era del numerico.
Ecco perché Cruise, come produttore e vero demiurgo della serie (ben differentemente dai 007 che si sono succeduti, in quanto pure macchine-corpo in mano agli aventi diritto sulla figura di Bond), ha preferito circondarsi di autori che fossero in grado di offrire una visione lungimirante dell'action digitale. Da De Palma allo sfortunato esperimento Woo, dall'eccezionale idea Abrams (dalla quale ha spiccato il volo la carriera cinematografica post-televisiva di JJ), fino alla ricostruzione ancor più avveniristica impostata dal sottovalutato quarto capitolo di Brad Bird, giungendo all'ottimo Christopher McQuarrie, personalità forti si sono sedute dietro la macchina da presa. Proprio Bird - con spunti eccezionali quali la pupilla fotografica, il trompe-l'oeuil digitale, l'identikit disegnato sul palmo della mano e altre delizie metaforiche - aveva fatto capire che con Hunt si poteva spingere l'acceleratore fino a farne una idonea allegoria dell'idea filosofica di azione nel cinema contemporaneo informatico.
Mission: Impossible - Rogue Nation costituisce forse il capitolo più "bondiano" dei cinque, con Hunt chiamato a un gioco a scacchi col nemico, a un rapporto controverso e affettivo con la bella spia chiamata Faust, e triangolando Fleming con la tradizione hitchcockiana da cui tutto (fin da Agente 007 - Licenza di uccidere) era partito. Ma è anche l'episodio più generoso con l'intera saga, citata qua e là con puntuali riferimenti e strizzate d'occhio, e quello in cui le dominanti ritmiche, narrative e coreografiche si sposano alla perfezione nel baricentro di Tom Cruise, cui Mission: Impossibile non potrebbe mai sopravvivere. Non c'è altro Hunt al di fuori di Cruise, mentre ci saranno sempre Bond anche dopo Connery, Moore e Craig. E mentre continuiamo a sognare uno 007 diretto da Tarantino, pensiamo che un futuro Mission: Impossible (prima che per la star sia davvero troppo tardi) sarebbe territorio di caccia perfetto per un grande autore del cinema digitale come David Fincher. Nel frattempo, però, McQuarrie si dimostra all'altezza dei nobili predecessori.