giorpost
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giovedì 11 ottobre 2012
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sbalorditivo l'inedito sodalizio sorrentino-penn
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Irlanda, oggi. Cheyenne (Sean Penn) è un’ ex rockstar americana in “pensione”. Ha scelto la tranquilla isola per trascorrere, insieme alla moglie, la seconda fase della sua vita, pur indossando ancora i panni dell’ eccentrico quanto apparentemente stralunato musicista quarantenne. La sua vita scorre lenta, tra la spesa al supermarket, una chiacchierata con l’ amica Mary, una puntata in borsa ed espressioni filosofiche sulla vita. Il tutto con un modo di parlare al quanto singolare ed accompagnato sistematicamente da un trolley da viaggio.
La sua quotidianità verosimilmente noiosa e cadenzata, viene sconvolta dalla notizia della morte del padre.
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Irlanda, oggi. Cheyenne (Sean Penn) è un’ ex rockstar americana in “pensione”. Ha scelto la tranquilla isola per trascorrere, insieme alla moglie, la seconda fase della sua vita, pur indossando ancora i panni dell’ eccentrico quanto apparentemente stralunato musicista quarantenne. La sua vita scorre lenta, tra la spesa al supermarket, una chiacchierata con l’ amica Mary, una puntata in borsa ed espressioni filosofiche sulla vita. Il tutto con un modo di parlare al quanto singolare ed accompagnato sistematicamente da un trolley da viaggio.
La sua quotidianità verosimilmente noiosa e cadenzata, viene sconvolta dalla notizia della morte del padre. Cheyenne, dunque, decide di partire per l’ America, lasciandosi alle spalle la moglie (Frances McDormand, sempre efficace), la già citata Mary (amica oppure sorella?) ed una donna della quale allo spettatore, fino alla fine del film, non è dato conoscerne il ruolo.
Inizia a questo punto un viaggio non solo materiale, ma di introspezione, di conoscenza, di solitudine ed al contempo fatto di nuovi incontri, con il fine ultimo di scovare un gerarca nazista che ha umiliato suo padre in un campo di concentramento durante la Seconda Guerra Mondiale.
Tralascerò il proseguire del film ed il suo finale, lasciando spazio ad un’ analisi approfondita. Parto col dire che ormai è indiscutibile il talento artistico del regista Paolo Sorrentino, attualmente il migliore in Italia. In secondo luogo non si può non spendere qualche riga sulla prova sontuosa di Seann Penn, semplicemente straordinaria e meritevole di premi di ogni tipologia, Academy Award compreso. Il protagonista di Milk veste i panni dell’ ex star come lo fosse stato per davvero, ispirandosi alla figura di Robert Smith dei Cure. Faccio notare che val la pena vedere questa pellicola anche in versione originale in quanto Penn è autore di un falsetto incredibile, oltre che irripetibile, lungo tutta la durata del lungometraggio. La fotografia bellissima del veterano Enzo Bigazzi, unita ad una scelta delle location davvero azzeccata, fanno raggiungere all’ opera i crismi del capolavoro. Le frasi che pronuncia il nazista mentre un incedere ripetuto della camera indugia sullo stesso, rappresenta una delle cose più belle ed innovative del Cinema degli ultimi 30 anni. Ad accompagnare il tutto, una colonna sonora di gran livello capeggiata dal brano che dà il titolo al film, interpretato da vari artisti nonché riproposto dall’ autore David Byrne in una sequenza live davvero eccezionale. La frase cult è senza dubbio "non sto cercando me stesso…sono in New Mexico, non in India", ma ce ne sono due ripetute più volte, ovvero “non è vero, ma è bello che tu me lo dica” e poi “qualcosa mi ha disturbato, non so bene cosa, ma qualcosa mi ha disturbato..." le quali ci consegnano una caratterizzazione del personaggio fatta di debolezza, fragilità ma anche di sorprendente e spiazzante semplicità. Il colore che si vede più frequentemente in This must be the place è il verde, come la speranza. Esattamente come quella mai persa da Olwen Foere, alias la madre di Mary, la quale attende disperata qualcuno, un qualcuno andato via non si sa fino a che punto fisicamente oppure spiritualmente. La speranza mia e spero di tutti, invece, è quella che vengano prodotti più frequentemente film di questo calibro, meglio ancora se fatti da noi italiani, maestri cineasti che non dovremmo invidiare nulla a nessuno ma che per troppo tempo siamo rimasti aggrovigliati tra cine-panettoni ed inutili manuali amorosi.
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teo '93
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domenica 23 settembre 2012
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un viaggio eccentrico e formativo
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Il lavoro di Paolo Sorrentino, un’incantevole combinazione di inventiva e qualità visiva, colpisce per la sua spericolata portata di poesia ed eccentricità, dolcezza e disincanto, armonia e anarchica grazia. Sean Penn giganteggia nel ruolo del protagonista Cheyenne, rockstar di musica goth ritiratasi dalle scene dopo una tragica e inaspettata esperienza, e ne descrive con introspezione la natura triste e malinconica, costruendogli un portamento distante, uno sguardo perduto e trasognato, l’animo di un bambino intrappolato sotto il grigio cielo dublinese e tra le pareti di una casa di ovattata compostezza. Il trucco pesante, la grottesca capigliatura, gli occhi vaghi e spenti ne fanno una figura tenera e triste, un personaggio in cui convivono l’entusiasmo dell’infante e la disillusa saggezza degli adulti.
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Il lavoro di Paolo Sorrentino, un’incantevole combinazione di inventiva e qualità visiva, colpisce per la sua spericolata portata di poesia ed eccentricità, dolcezza e disincanto, armonia e anarchica grazia. Sean Penn giganteggia nel ruolo del protagonista Cheyenne, rockstar di musica goth ritiratasi dalle scene dopo una tragica e inaspettata esperienza, e ne descrive con introspezione la natura triste e malinconica, costruendogli un portamento distante, uno sguardo perduto e trasognato, l’animo di un bambino intrappolato sotto il grigio cielo dublinese e tra le pareti di una casa di ovattata compostezza. Il trucco pesante, la grottesca capigliatura, gli occhi vaghi e spenti ne fanno una figura tenera e triste, un personaggio in cui convivono l’entusiasmo dell’infante e la disillusa saggezza degli adulti. Il viaggio di quest’uomo inizia dalla lettura del diario del padre appena scomparso, un uomo che in vita ha instancabilmente tentato di rintracciare il suo persecutore nazista ad Auschwitz. Il viaggio di Cheyenne diviene così ricerca, lento cammino tra le polverose sterpaglie e le sconfinate frontiere americane, luoghi di passaggio, non destinazioni, terre calde e aride che è necessario attraversare e respirare se si vuole scorgere la meta. Il percorso di Cheyenne è denso di incontri, avventure, imprevisti. Egli capirà presto che vivere significa credere nella possibilità di un riscatto, di una salvezza. E infine, in una dimenticata baracca nel deserto, la ricerca s’arresta e diventa fioca, decisiva consapevolezza: Cheyenne ritrova il padre nel racconto spiazzante del suo eterno nemico, il bambino impaurito di un tempo può finalmente sentire di avere un posto nel mondo, un saldo legame con un passato al quale ritorna ad appartenere e dal quale ritorna da uomo vivo, consapevole. E allora cade il suo trucco, la maschera cede. Il ritorno a casa di Cheyenne è il suo risveglio, la compiuta elaborazione di una mancanza, l’ascesa di uno spettro alla flebile luce dei vivi. Intenso e spiazzante, il film conferma il rigore e la sensibilità di un regista che non ha mai rinunciato a raccontare i profili enigmatici dell’animo umano, i confronti generazionali, le difficoltà comunicative. Un autore dallo sguardo maturo ed emozionale che ha sempre prediletto la suggestione al racconto, la fascinazione visiva alla lucidità rappresentativa, l’elegante graffio dell’autore all’invadenza di uno sguardo onnisciente. Il film vive attraverso sequenze di evocativa grazia, rivela lentamente il suo nucleo emotivo, spiazza con arguzia e intelligenza, satura le sequenze di una luce ora gelida, ora abbagliante, ora calda. Sorrentino muove la cinepresa con la padronanza di un coreografo di anime in pena, con la sensibilità di un cantastorie di vite erranti, alla perenne ricerca di sé tra i cocenti deserti dei rimpianti e dei sensi di colpa. Il regista partenopeo rinuncia a ogni usualità, di scrittura e di regia. Non perde mai il punto di vista di chi racconta pur non rinunciando a stravolgere spesso ogni logica con interventi stravaganti, passaggi di stramba delizia, battute impeccabili e di un umorismo nero e irriverente. Affida alla musica eclettica e suggestiva di David Byrne il compito di cadenzare il percorso del protagonista lungo il suo impervio cammino, grazie a un ritmo disteso, talvolta onirico, e a una sonorità aderente alla natura volubile e innocente di Cheyenne. Una lezione di gusto e vivacità.
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mauryt
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mercoledì 19 settembre 2012
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una storia intrisa di poesia e filosofia
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Il bravissimo Sean Penn interpreta Cheyenne in una storia di una popstar atipica e poi chissà se veramente atipica, chi può veramente sapere come è una popstar “sotto il cerone il rossetto” o i piercing o i tatuaggi? Paolo Sorrentino insieme a Umberto Contarello co-sceneggiatore, ha costruito una dolcissima e particolare storia umana intrisa di poesia per gli occhi e di filosofia per la mente. Una popstar che si riavvicina al padre alla sua dolorosa memoria inseguendo il di lui passato per riscattarne la dignità e ritornare finalmente in pace con lui e con se stesso.
Avevo sentito opinioni contrastanti su questo film del tipo “o lo si odia o lo si ama”. Francamente non so come non si riesca a restare affascinati anche, e soltanto, da alcune scene apparentemente semplici: l’incontro di Cheyenne con il vero David Byrne suo ex amico e collega, l’incontro con il piccolo figlio di una ragazza madre il quale gli domanda di accompagnarlo con la chitarra mentre il piccolo canta “This must be the place”.
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Il bravissimo Sean Penn interpreta Cheyenne in una storia di una popstar atipica e poi chissà se veramente atipica, chi può veramente sapere come è una popstar “sotto il cerone il rossetto” o i piercing o i tatuaggi? Paolo Sorrentino insieme a Umberto Contarello co-sceneggiatore, ha costruito una dolcissima e particolare storia umana intrisa di poesia per gli occhi e di filosofia per la mente. Una popstar che si riavvicina al padre alla sua dolorosa memoria inseguendo il di lui passato per riscattarne la dignità e ritornare finalmente in pace con lui e con se stesso.
Avevo sentito opinioni contrastanti su questo film del tipo “o lo si odia o lo si ama”. Francamente non so come non si riesca a restare affascinati anche, e soltanto, da alcune scene apparentemente semplici: l’incontro di Cheyenne con il vero David Byrne suo ex amico e collega, l’incontro con il piccolo figlio di una ragazza madre il quale gli domanda di accompagnarlo con la chitarra mentre il piccolo canta “This must be the place”. C’è poi l’amorevole e ironico rapporto con la moglie una simpaticissima Frances McDormand.
Un suggerimento per i non anglofoni: vedere una prima volta il film in italiano, poi una seconda in inglese con i sottotitoli e infine senza sottotitoli. Successivamente (nei vari passaggi televisivi) lo si può guardare anche senza audio e bearsi di una superba regia che spazia dai volti intensi dei protagonisti ai vasti paesaggi americani.
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luke_90
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lunedì 17 settembre 2012
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da pelle d'oca (in senso buono)
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Capolavoro di Sorrentino, da vedere e rivedere, senza dubbio. Grande sceneggiatura e colonna sonora, regia da sogno, recitazione semplicemente superba. Una delle cose che si apprezzano maggiormente è sicuramente questa figura di eroe maletto che diventa un pò la metafora di una generazione o di una civiltà ormai in netta decadenza, alle prese con il proprio passato. Sean Penn è un grandissimo Cheyenne e Cheyenne è un grandissimo Sean Penn.
Molti film liquidano i personaggi secondari ascrivendoli a semplici stereotipi ( c'è il carcerato, il poliziotto, il tipo di colore), Sorrentino non cade in questa trappola, addirittura le comparse sono curate e hanno un loro spessore, nessuno è lasciato al caso.
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Capolavoro di Sorrentino, da vedere e rivedere, senza dubbio. Grande sceneggiatura e colonna sonora, regia da sogno, recitazione semplicemente superba. Una delle cose che si apprezzano maggiormente è sicuramente questa figura di eroe maletto che diventa un pò la metafora di una generazione o di una civiltà ormai in netta decadenza, alle prese con il proprio passato. Sean Penn è un grandissimo Cheyenne e Cheyenne è un grandissimo Sean Penn.
Molti film liquidano i personaggi secondari ascrivendoli a semplici stereotipi ( c'è il carcerato, il poliziotto, il tipo di colore), Sorrentino non cade in questa trappola, addirittura le comparse sono curate e hanno un loro spessore, nessuno è lasciato al caso. Sembra quasi che si sia creato un mondo parallelo nella pellicola in cui ognuno ha la sua storia ed è capitato lì quasi per caso. Beh quando un film riesce a fare questo, signori, ci troviamo di fronte ad un autentico capolavoro. Notevole anche l'idea di "cortocircuitare" divesi elementi cari al mondo occidentale, vengono amalgamati temi come l'olocausto, il viaggio "on the road", il sogno americano (infranto), la musica rock e tanti altri ancora. Geniale la trovata delle poesie recitate dalla voce fuoricampo così come geniale è la figura del carnefice nazista. Un antagnonista superbo, una preda conquistata dal suo cacciatore in una sorta di sindrome di Stoccolma verificatasi da entrambe le parti. Il monologo finale è a mio parere uno dei più belli e toccanti del cinema internazionale, ma non è solo questo. Raggiunge una cima più alta perchè si colloca come un punto della civiltà occidentate. In quel momento c'è tutto, c'è la seconda metà del novecento, c'è il cinema, c'è la musica, c'è addirittura l'olocausto. Non mi sbilancio affatto se dico che Sorrentino e Sean Penn hanno fatto nel cinema quello che T.S. Eliot ha fatto con la poesia.
Fantastica la trovata di inserire elementi unificatori lungo il corso del film, evitano che la trama venga lacerata dalle singole spinte centrifughe. Molto curati i particolari (la figura circolare, la ruota, il trolley) che tuttavia non distraggono l'attenzione dello spettatore. Un film da vedere, rivedere, e vedere ancora.
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zenos
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venerdì 7 settembre 2012
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beata ingenuità!
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Molto poetico e naif. La realtà vista da Sorrentino è diversa, è quella vista con gli occhi di una geniale rockstar in crisi che compie un viaggio per ritrovare un po' se stesso, un po' gli altri, le sue origini e per porre anche un po' di ordine nella sua strana vita. I ragionamenti fatti da Cheyenne, aka Sean Penn, sono molto spesso insapettati e privi di ogni pregiudizio. La sceneggiatura è ottima come del resto la colonna sonora. Originale e inaspettato. Insomma da vedere.
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sinphi
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giovedì 6 settembre 2012
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calma vendetta da gustare ...gelata
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Se si puo' dire che la vendetta si deve gustare fredda! Immagini bellissime, fotografia eccellente! Questo film direi che sia onirico...talmente onirico che ti vien sonno! Film calmante meglio dello Xanas ! La vendetta di Edward Mani di Forbice che dopo ritorna normale!! Il look a me non dispiaceva...il fatto che fosse lobotomizzato ...forse ha sniffato troppo! Il Viaggio iniziatico non ha spessore, non ha trama...non coinvolge piu' di tanto! Mi ha rilassato questo si...tanto! Il protagonista sempre a ciucciare cannucce perchè non si è mai fatto una sigaretta e portare il proprio fardello in giro perchè non vuole crescere e deve superare suo padre e la sua pseudo vendetta puo' essere interessante ma non va al di la'! de Gustibus per chi è piaciuto
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angelo umana
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sabato 25 agosto 2012
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cercar sé stessi
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Victor Hugo ne i Miserabili: “E’ nulla il morire. Spaventoso è non vivere” (o, si potrebbe anche dire, vivere da morti). Questo sta facendo Cheyenne – superlativo insuperabile Sean Penn, da risultare infine grandemente simpatico e degno d'affetto – ex rocker che vive di rendita e di ricordi in Irlanda, una vita ferma e lenta come i suoi pensieri e parole, non privi di ironia, un morto vivente, un’ameba, sebbene vestita pettinata e truccata (con relativi matite rossetto smalto cipria e fondotinta) ancora da rocker.
Alla morte del padre, ebreo polacco emigrato in America dopo il campo di concentramento e la seconda guerra - padre che Cheyenne non vede da trent’anni - l’ex rocker si muove, si anima un po’, ha uno scopo, quello di trovare negli USA l’ormai 95enne ex ufficiale nazista che aveva umiliato papà nel lager, un certo Aloise Lange che si fa chiamare Smith.
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Victor Hugo ne i Miserabili: “E’ nulla il morire. Spaventoso è non vivere” (o, si potrebbe anche dire, vivere da morti). Questo sta facendo Cheyenne – superlativo insuperabile Sean Penn, da risultare infine grandemente simpatico e degno d'affetto – ex rocker che vive di rendita e di ricordi in Irlanda, una vita ferma e lenta come i suoi pensieri e parole, non privi di ironia, un morto vivente, un’ameba, sebbene vestita pettinata e truccata (con relativi matite rossetto smalto cipria e fondotinta) ancora da rocker.
Alla morte del padre, ebreo polacco emigrato in America dopo il campo di concentramento e la seconda guerra - padre che Cheyenne non vede da trent’anni - l’ex rocker si muove, si anima un po’, ha uno scopo, quello di trovare negli USA l’ormai 95enne ex ufficiale nazista che aveva umiliato papà nel lager, un certo Aloise Lange che si fa chiamare Smith. Una voce di fondo – quella del padre, probabilmente – dice che prima dell’esperienza nel lager non ricordava altro che “spensieratezza” e che in fondo il cielo che vedeva dal campo, pure se segnato dalla linea del fumo dei forni, era bello come quello della sua infanzia.
Più che la ricerca dell’ex nazista è un “on the road” che lo fa riflettere su se stesso, su tutta la sua vita e le sue convinzioni errate; il viaggio ci mostra anche un’America legata ai suoi schemi, quasi ingenua. Scopre ad esempio, lui che non ha avuto un figlio e che a 15 anni si convinse di non essere amato dal padre, che nessun padre può non amare il proprio figlio. Attraverso vari stati americani alla ricerca di Lange, col suo inseparabile trolley, il suv, i motel, ha degli incontri anche toccanti che lo aiutano nelle sue riflessioni (un’associazione di idee conduce a “Into the wild”): un ex pilota d’aereo che è egli stesso l’inventore del trolley, l’ebreo cacciatore di nazisti e grande amico di suo padre, Mordecai Midler, la giovane barista Rachel e suo figlio che da sempre cercano un affetto, e saranno gli unici per i quali Cheyenne riprende in mano una chitarra per suonare "This must be the place" dei Talking Heads.
Memorabile e di grande impatto emotivo la scena conclusiva, del corpo vecchio e decrepito di Aloise Lange che cieco e nudo vaga in un paesaggio nevoso.
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[+] caro angelo ti vengo a trovare nella tua..........
(di weach )
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noname oo
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mercoledì 22 agosto 2012
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nulla da aggiungere.non voglio tediarvi.
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Zappoli ha detto tutto meglio di me.Io non lo conosco ma su questo film condivido al 100/100,ergo,non aggiungerò una virgola in più.Ciao.
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mizio.for
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mercoledì 22 agosto 2012
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peccato
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Penso che ci voglia un'enorme forza di volonta' per vederlo dall'inizio alla fine.Lo ritengo un film lento e noioso.La sceneggiatura vuole essere originale articolata,vuole svelare il senso del film poco a poco ma risulta sconclusionata.Ho letto l'esaltazione del protagonista e della sua introversione ma appare "forzato" e poco convincente,S.Pean e' capace di ben altro.Il film riesce a narrare un viaggio con l'interprete principale che resta impalato fotogramma dopo fotogramma.Ha deluso le mie aspettative. . .peccato.
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simone lombardi
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domenica 19 agosto 2012
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troppo facile
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Mi domando se il film avrebbe ricevuto tutte queste attenzioni qualora fosse stato interamente prodotto in Italia con un cast non cosi' riconoscibile. non credo.
chiunque , come me, abbia visto almeno 10 minuti del reality "The Osbournes", non puo' non aver associato il personaggio interpretato da Sean Penn con quello di Ozzy.
Ma mentre e' accettabile la caricatura di se stesso che viene fatta dalla suddetta ex-rock star, non è piu' accettabile una CARICATURA DELLA CARICATURA (Sean Penn).
Per carita', molto è sicuramente dato anche al doppiaggio: ammetto di non aver visto il film in lingua originale, e voglio credere che la recitazione di S.
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Mi domando se il film avrebbe ricevuto tutte queste attenzioni qualora fosse stato interamente prodotto in Italia con un cast non cosi' riconoscibile. non credo.
chiunque , come me, abbia visto almeno 10 minuti del reality "The Osbournes", non puo' non aver associato il personaggio interpretato da Sean Penn con quello di Ozzy.
Ma mentre e' accettabile la caricatura di se stesso che viene fatta dalla suddetta ex-rock star, non è piu' accettabile una CARICATURA DELLA CARICATURA (Sean Penn).
Per carita', molto è sicuramente dato anche al doppiaggio: ammetto di non aver visto il film in lingua originale, e voglio credere che la recitazione di S.P. fosse migliore di quella che ne scaturisce da questo doppiaggio a dir poco osceno.
I ridolini, gli atteggiamenti forzati a quel modo, quel trucco ovvio e banale, non si addicono ad un attore della statura di S.P.
Il susseguirsi di battute forzate, per non parlare dello snocciolamento "riempi spazi" di epifanie felliniane (evidentemente il registe e' un fan di Fellini...WOW.....) proprio non aiuta.
mi spiace ma questo e' solo un fil....carino......sarebbe stato perfetto come prima opera di un ventenne regista, magari una ventina di anni fa........
S.L.
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