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Autunno alle Hawaii

Paradiso amaro tra dolore e generosità.
di Roy Menarini

In foto l'attore George Clooney in una scena di Paradiso amaro di Alexander Payne.
George Clooney (George Timothy Clooney ) (63 anni) 6 maggio 1961, Lexington (Kentucky - USA) - Toro. Interpreta Matt King nel film di Alexander Payne Paradiso amaro.

domenica 19 febbraio 2012 - Approfondimenti

Difficile individuare la primogenitura dei cliché cinematografici. Per esempio: è Alexander Payne che ha indirizzato il cinema indipendente americano verso certi codici o è il cinema indipendente americano ad aver fornito pedissequi modelli a Payne? Paradiso amaro, vedendo il bicchiere mezzo vuoto, obbedisce supino ad alcune parole d'ordine quasi ossessive del cinema e della letteratura Usa degli ultimi anni: le famiglie sbilenche, le figlie sboccate e ribelli, i padri inadatti, il viaggio interno al territorio con funzione riparatoria, l'adulterio come detonatore, e così via. Da Little Miss Sunshine a American Life, da Juno a Il calamaro e la balena – solo per citare i più noti in Italia (ma di titoli passati al Sundance Film Festival ce ne sarebbero a decine) – il fiorire di famiglie disgregate, adulti depressi e figli scoppiati è diventato quasi imbarazzante. Payne, ovviamente, rappresenta la versione deluxe di questo sottogenere che gli smaliziati conoscono ormai bene e, come si diceva all'inizio, vanta più di una medaglia nell'aver traghettato i film meno convenzionali fino alla soglia degli Oscar.
E qui arriviamo al bicchiere mezzo pieno. Piace, di Paradiso amaro, la sottigliezza psicologica, la capacità di rappresentare personaggi medi se non mediocri, dove il riscatto non è fornito da qualche impresa fuori del comune ma dal semplice esercizio della generosità. Generosità nel non dire certe cose al padre della propria moglie, nel non rovinare le famiglie altrui anche se si è feriti nel profondo, nell'attendere che un pizzico di grazia si insinui nell'universo doloroso e nero del lutto, imminente e trascinato per tutto il film. Il personaggio della moglie, muta e chiusa nella gabbia di un corpo ormai perduto, sprofondata nel pozzo del coma, dice più e meglio dei vivi, che si affannano a ricostruirne (e giudicarne, con una certa dose di presunzione) i comportamenti prima dell'incidente. Il cinema è da sempre affascinato, sia detto senza cattivo gusto, dallo "spazio bianco" e sospeso dell'incoscienza, concentrandosi ora sui vivi in trepidante attesa (il parafrasato film di Francesca Comencini, appunto), ora sui pazienti e i loro ambigui flashback (Il mistero Von Bulow), ora sull’amore proibito che può legare un uomo alla paziente imprigionata nel sonno (Parla con lei). Si aggiungano cospirazioni (Coma profondo), miracoli della medicina (Risvegli), fantasmi della mente (Mulholland Drive) partoriti durante una catatonia che il cinema si incarica di raccontare, magari illustrando l'indicibile, ovvero il percorso di una mente ancora aggrappata alla vita ma persa nello spazio interno, come dimostra per esempio il breve ciclo di episodi de I Soprano, sesta stagione, in cui Tony viaggia in una vita parallela mentre attende di risvegliarsi in ospedale.
Insomma, il coma è un generatore di narrazioni, e viene invertito di segno dal cinema, che non può e non vuole arrestarsi di fronte al silenzio, anche quello irreversibile di Elizabeth in Paradiso amaro. Le parole per dirsi addio, in questo caso, offrono possibilità di riparazione e persino di scelte future che i "discendenti" del titolo originale della pellicola potranno amare come eredità imprevista.

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