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I guardiani del destino, un libro pieno di schemi elettrici

A colloquio con J. Corbett, supervisore degli effetti del film.
di Marco Consoli

Uno dei concept preparatori del misterioso libro del film I guardiani del destino.

venerdì 17 giugno 2011 - Incontri

Il MacGuffin, come l’aveva battezzato Hitchcock, era quell’oggetto misterioso, che doveva incuriosire ma non distrarre il pubblico, e fungere da motore di una storia: dalla busta col denaro di Psyco, alla valigetta di Pulp Fiction, dal falcone maltese dell’omonimo film alla scatola di The Box, il cinema è pieno di esempi. Ne I guardiani del destino di George Nolfi, il MacGuffin è rappresentato da uno strano libro in possesso dei membri dell’organizzazione del titolo, che intervengono per cambiare il futuro degli esseri umani e del povero senatore Matt Damon, spingendolo a non frequentare più la ballerina Emily Blunt, di cui si è perdutamente innamorato. Un libro pieno di bizzarri e incomprensibili simboli, che ovviamente non fanno che infittire il mistero del film, ispirato alle pagine di Philip K. Dick. Per scoprirne un po’ di più il contenuto e capire come è stato realizzato abbiamo intervistato J. John Corbett, supervisore degli effetti visivi della newyorkese Brainstorm Digital.

Come era descritto il Libro dei Piani nella sceneggiatura?
Lo script di George Nolfi era piuttosto esplicito circa l’aspetto del libro: l’idea di base è che contenesse un qualche schema elettrico in movimento.

Quali sono state le difficoltà del design?
La vera sfida è stata creare un design che potesse allo stesso tempo risultare incomprensibile, eppure comunicasse allo spettatore in poche inquadrature il senso dell’avanzamento della trama. La premessa era che gli umani non sono in grado di dare un senso alle pagine del libro, ma George voleva una logica interna che se vista da vicino potesse acquistare un senso nel contesto dei vari snodi della trama: per questo è stato necessario inventare i vari simboli e il modo in cui si muovevano, in modo da creare un significato che non fosse comunque troppo semplicistico. Bisognava evitare a tutti i costi che gli spettatori potessero leggerlo come si legge una mappa di Google o un GPS. Doveva sembrare al tempo stesso antichissimo e tecnologicamente molto avanzato.

Come siete arrivati al risultato finale?
I primi tentativi di design erano basati su cerchi concentrici, collisioni subatomiche, clessidre e antiche mappe nautiche, ma abbiamo capito subito che il territorio degli schemi elettrici era quello in cui saremmo finiti. La prima svolta è arrivata quando abbiamo avuto l’intuizione di far sembrare gli schemi disegnati a mano e un po’ consumati. Poi abbiamo gradualmente aggiunto colore e diverse densità delle linee, provando più volte a giocare con le trasparenze, anche se poi quest’ultima idea è stata scartata perché dava profondità a una pagina che invece doveva apparire piatta.

Vi siete documentati in qualche modo per disegnare questi elementi grafici?
Abbiamo studiato tonnellate di schemi elettrici, circuiti stampati e diagrammi ad albero.

Come avete integrato l’immagine creata al computer nel libro sul set?
Non è stato affatto semplice. Abbiamo apposto dei marcatori sulle pagine bianche che assomigliavano ad alcuni dei nostri simboli, per tracciare i movimenti nello spazio del libro reale usato sul set. Questo è stato necessario soprattutto per capire come creare pagine digitali in grado di piegarsi senza perdere l’illusione del realismo. Poi abbiamo assemblato con Nuke il libro girato dal vivo con la grafica realizzata al computer, sfruttando le informazioni della luce reale per proiettare ombre digitali. Dopo aver creato le animazioni con After Effects è stato necessario anche sincronizzarle rispetto ai movimenti e alla recitazione degli attori.

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