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Paul Haggis, l'uomo delle domande

Il regista inglese parla di The Next Three Days, dramma familiare con Russell Crowe.
di Ilaria Ravarino

In foto Russell Crowe, protagonista di The Next Three Days, dramma diretto dal regista inglese Paul Haggis.
Russell Crowe (Russell Ira Crowe) (60 anni) 7 aprile 1964, Wellington (Nuova Zelanda) - Ariete. Interpreta John Brennan nel film di Paul Haggis The Next Three Days.

martedì 5 aprile 2011 - Incontri

Fatemi domande, tante domande. Io le amo. Quando trovo una domanda, trovo un film». Una chiacchierata con Paul Haggis vale più di un seminario in una scuola di cinema. Cineasta da Oscar, penna di Million Dollar Baby e regista di Crash – Contatto fisico, sceneggiatore passato più volte dietro alla macchina da presa e dall’otto aprile in sala con The next three days, l’inglese Paul Haggis è uno degli uomini più rappresentativi della Hollywood contemporanea. Artista indipendente, partner creativo di Clint Eastwood e proprietario della casa di produzione HWY 61, Haggis sa flirtare serenamente con tv e major, alle quali di tanto in tanto si concede: «Non sono uno snob – dice di sé – per me un film deve far riflettere. E fare entertainment». Mente brillante, animo inquieto, in tasca ha due Oscar e alle spalle due divorzi: uno dalla donna che ha amato per 10 anni, e che ancora oggi è la prima a leggere i suoi scritti, l’altro, recente, dalla Chiesa di Scientology «che ho lasciato appena ho capito che non aveva più niente da darmi». Per Haggis non esiste nessuna separazione tra vita personale e lavoro, «le questioni che affronto nei miei film – dice - sono le stesse che travagliano la mia vita»: la prima domanda all’uomo delle domande, dunque, non può che riguardare il privato.

Il suo prossimo film avrà a che fare con la Chiesa di Scientology?
Assolutamente no. Per quanto sia stata un’esperienza importante, credo ci siano cose più importanti di cui parlare. L’amore, per esempio.

Girerà un film sull’amore?
Il titolo sarà "Terza persona", un film composto da tre storie d’amore che si intrecciano alla Crash. Il tema che mi sta a cuore in questo momento, ma che tocco in quasi tutti i miei film, è la morale. L’uomo tende a giustificarsi sempre, anche quando ha torto. La domanda da cui sono partito è: la mia morale è giusta o l’ho assunta perché mi fa sentire meglio nei confronti della donna che amo, magari per convenienza?

Da che domanda è partito, invece, per The next three days?
Salveresti la donna che ami sapendo di correre il rischio di trasformarti in una persona che lei non vorrebbe più avere al suo fianco? E cioè: qual è il prezzo da pagare per l’amore?

E che risposta si è dato?
Che il prezzo giusto da pagare consiste in un piccolo sacrificio: dare più di quanto si riceva. Una regola di comportamento che vale in amore, ma anche negli affari, nel business, in politica. Se ho avuto successo a Hollywood è proprio perché sono stato sempre pronto a dare più di quanto ricevevo. Ho scritto sceneggiature senza essere pagato o prendendo un piccolissimo cachet, come per Crash, e quando ho fallito è stato perché il mio ego mi aveva suggerito di alzare la posta. Il gigantismo dell’ego ha distrutto molte carriere a Hollywood.

A quali fallimenti allude? Lei è un uomo di successo.
I miei fallimenti sono così tanti che non ci basterebbe il tempo per elencarli. Pecco spesso di orgoglio, e nei miei film lo dico, e lotto ogni giorno per migliorarmi. In questo momento, per esempio, ho davanti a me tante persone che mi ascoltano: è difficile non sentirsi importanti. Devo costantemente ricordare a me stesso che ora non sono un regista o uno sceneggiatore migliore di prima solo perché qualcuno me lo dice. Ma è difficile rimanere con i piedi per terra, senza scadere nella falsa modestia.

Cosa c’è di autobiografico in The next three days?
Nulla di autobiografico per quel che riguarda il crimine, ma mi identifico completamente nella storia d’amore e nel quesito: cosa può fare un uomo per salvare la sua donna?

The next three days è un remake del thriller francese Pour Elle: non ha ferito il suo orgoglio adattare una storia scritta da altri?
Il film originale era forte, potente, ma molto corto. Lasciava spazio per affrontare in un remake molte questioni non risolte: la natura della fiducia, la natura dell’amore. E poi non sono snob, se i remake vanno bene a Scorsese vanno bene anche a me.

Mentre scriveva il film pensava già di affidare il ruolo da protagonista a Russell Crowe?
No, trovo sbagliato pensare a un attore in fase di scrittura. Se lo fai, finisci con lo scrivere in funzione di ciò che quell’attore ha già fatto. Decido l’attore solo a sceneggiatura chiusa.

Di Crowe si dice che abbia un brutto carattere. È così?
Lo so, gode di cattiva fama ma io non la penso così. Russell è una persona riflessiva, lavorare con lui è una sfida ma in senso positivo. È un attore generoso e disponibilissimo.

Quanto tempo ha impiegato per scrivere la sceneggiatura di The next three days?
Un anno e mezzo, è stata una lotta. Per scrivere Million dollar baby mi era servito solo un anno, per questo film ho sbagliato la sceneggiatura 50 volte, non riuscivo a scriverla. In questo mestiere non bisogna mai essere soddisfatti, ma nemmeno diventare cinici. Bisogna prendere seriamente il proprio lavoro senza prendersi troppo sul serio.

Chi è la prima persona che legge le sue sceneggiature?
Mia moglie, nonostante ci siamo separati abbiamo ancora un buon rapporto, molto profondo. Lei è un ottimo giudice dei miei lavori, anche se non sempre ha ragione. Per Million dollar baby non mi parlò per una settimana perché voleva che cambiassi il finale ma io mi rifiutavo. E non l’ho fatto. La sceneggiatura di The next three days gliel’ho tenuta nascosta per un anno, ma quando l’ha letta l’ha apprezzata. L’altra persona che mi legge è il mio socio in produzione Michael Nozik.

Perché avete deciso di fondare una vostra casa di produzione?
Perché credo che anche le decisioni finanziarie siano decisioni creative, e viceversa, e perché ritengo che sia sempre meglio assumersi tutte le responsabilità del film e di ciò che lo riguarda. A Haiti, dove mi trovavo per tenere un seminario in una scuola, ai ragazzi dicevo esattamente questo: se hai 5 giorni per fare un film e per 4 giorni piove, la colpa è tua. Se non riesci a girare, non puoi prendertela con gli attori o con i produttori che hanno pagato. Avere la chance di fare un film è già una benedizione, a quel punto sta a te fare del tuo meglio perché riesca. Se so che un film è sulle mie spalle, io cerco di fare tutto quello che posso per ottenere il massimo.

Si interessa di politica? Che ne pensa della guerra in Libia?
Non sono uno che si intimidisce nell’esprimere pareri politici, del resto sono stato forse l’unico che, a tre settimane dall’insediamento di Obama, ha espresso alcune perplessità sul suo atteggiamento nei confronti di Guantanamo. Nel caso della Libia tuttavia non ho informazioni sufficienti per sviluppare una riflessione completa. Penso due cose: prima di tutto, quando la gente lotta per la libertà, merita aiuto. In seconda battuta però c’è da dire che noi facciamo troppo facilmente ricorso alla violenza. Non siamo ancora abbastanza intelligenti, come esseri umani, per capire che la pace richiede impegno e collaborazione con il nemico. Anziché lavorare per trasformarli in amici, i nemici preferiamo trattarli da cattivi, attaccarli e combattere. Non sarà che alla fine siamo noi a crearci da soli i nostri stessi nemici? Ecco, sono questioni come queste che poi finiscono per diventare film.

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