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Angèle e Tony, il nuovo neorealismo parla francese

La regista Alix Delaporte presenta in Italia il suo ultimo film.
di Ilaria Ravarino

Clotilde Hesme (Angéle) in una scena del film Angèle e Tony della regista francese Alix Delaporte.
Clotilde Hesme (45 anni) 30 luglio 1979, Troyes (Francia) - Leone. Interpreta Angèle nel film di Alix Delaporte Angèle e Tony.

giovedì 28 aprile 2011 - Incontri

Una regista che non cerca «effetti» ma «emozioni», che gira un film perché trascinata da un’immagine, quella di una madre con un bambino in braccio, senza farsi troppe domande sull’origine delle sue intuizioni artistiche: «Non faccio elucubrazioni psicologiche di alcun tipo, mentre scrivo un film – ha detto in conferenza stampa la regista Alix Delaporte, in Italia insieme all’attrice protagonista Clotilde Hesme per presentare la sua opera prima Angèle e Tony - Non mi chiedo mai perché sto scrivendo una storia, la inseguo e basta». La storia in questione, messa al mondo grazie al consistente contributo dello stato francese (circa un milione di euro) e figlia del ritrovato realismo del cinema transalpino, ha riscosso il consenso unanime dei giornalisti in sala. Ma soprattutto ha colpito e affondato, con il suo coraggio nell’affrontare di petto certi delicati argomenti, l’arida superficialità che da decenni affligge il cinema italiano: l’inconfessato pensiero che serpeggia nel pubblico è che una storia come quella di Angèle e Tony, ovvero le vicissitudini una madre costretta a prostituirsi per riconquistare l’amore del proprio bambino, in Italia potrebbe finire nel migliore dei casi solo in commedia. Poco importa che il film, in uscita il 29 aprile, sia distribuito in appena 30 sale: l’ammirazione per il sistema francese, e per la fertilità creativa dei suoi autori, è il fil rouge che lega ogni commento in sala.

Da cosa dipende la straordinaria maturità delle opere prime francesi?
Delaporte: Il nostro sistema offre l’opportunità di reperire fondi e finanziamenti, immette linfa vitale e irradia energia in tutto il cinema, ma non risolve ogni problema: la cosa più difficile per un autore non è trovare i soldi, ma scrivere buone storie. La Francia, poi, non è esattamente il paradiso: diciamo che da noi è più facile realizzare opere prime rispetto a qualsiasi altro paese europeo. Ovviamente bisogna accettare dei compromessi: gli attori non sono super pagati, dunque i registi non possono lavorare con interpreti famosissimi. Non abbiamo una solida cintura di sicurezza, dobbiamo chiedere alla troupe di sacrificarsi, rinunciare ai camerini galattici, accontentarsi di una truccatrice per trenta persone, di mangiare sempre la stessa cosa...

Qual è il segreto del realismo del nuovo cinema francese?
Delaporte: Il mio cinema, come gran parte del cinema del mio paese, ha molta fiducia negli attori. Ci sono registi che cercano di far emergere la verità della storia usando attori non professionisti, e poi c’è chi, come me, si affida ad attori professionisti ma capaci di integrarsi nel racconto diventando veri.

Per l’attrice è stato difficile calarsi nel ruolo?
Hesme: La sfida più difficile è stata gestire il rapporto con il bambino, ero del tutto impreparata, non sapevo che fare. Mi impressionava tanto la sua verità e la sua forza, quella di un bimbo che per davvero non vedeva la mamma da tanto tempo, e non ne voleva sapere di stare con me. Ci siamo abituati l’uno all’altra, il nostro rapporto è diventato autentico, l’abbiamo costruito a poco a poco durante le riprese. E tutte le scene con lui sono state girate in ordine cronologico per facilitarne l’immedesimazione. È stato un piccolo lusso che ci siamo concesse.

Qual è stata l'intuizione che ha dato il via al film?
Delaporte: La prima ispirazione è stata un’immagine di Angèle con il bambino in braccio, che poi è diventata l’ultima inquadratura del film. Volevo arrivarci a tutti i costi, ma non era facile. Doveva essere il punto di arrivo di un percorso di liberazione dei sentimenti della protagonista.

Come ha lavorato alla scrittura della storia?
Delaporte: La scrittura è stata molto lunga, è durata due anni. Non volevo creare effetti, ma raccontare emozioni che mi toccano personalmente e intimamente. Non lascio nulla al caso quando lavoro a una sceneggiatura, scrivo di getto e poi faccio un’operazione di pulizia, ritorno sui dialoghi e li filtro per renderli più essenziali possibile. Quanto alla location del film, la Normandia, è un posto che conoscevo bene perché ci andavo in vacanza. Sapevo del problema dei pescatori, preoccupati per il proprio mestiere, condannato a scomparire quando tutti mangeremo solo pesce importato dalla Thailandia. Da donna in carriera, che come tante ha messo un po’ da parte il calore e l’umanità, ho sempre nutrito interesse per le comunità destinate a sparire, per la solidarietà che vi si crea, quasi fossero piccole società ideali. Ho osservato la Normandia con uno sguardo da giornalista, con lo spirito di un viaggiatore.

La solidarietà esiste per lei solo nelle piccole comunità?
Delaporte: No, ovviamente non penso che tutti i pescatori siano santi e solidali: c’è anche una grande competizione in quel mondo Volevo rappresentare la loro società usandola come spunto per pormi delle domande: cosa abbiamo perso vivendo in città, e cosa troveremo? Dove stiamo andando a finire?

Quanto c’è della sua biografia in questa storia?
Delaporte: La mia vita non c’entra niente, anche se più cerchi di non mettere nulla di personale in un film, e meno ci riesci. Non mi chiedo mai, mentre faccio un film, perché lo sto facendo. Di mio c’è che scrivo come parlo: parlo poco, e dunque nei miei film ci sono pochi dialoghi.

Sta lavorando a qualcosa di nuovo?
Delaporte: Sì, sto scrivendo un nuovo film.

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