Il film di De Sica asseconda vene visionarie o antirealiste, in grado di farci uscire da ciò che affatica la produzione nazionale. Al cinema.
di Roy Menarini
C'è una gran voglia di scuotersi dalle abitudini narrative e figurative, nel cinema italiano. Lo dimostra la tendenza di molti registi alle opere prime o seconde ad assecondare vene visionarie o antirealiste, in grado di farci uscire da ciò che troppo spesso affatica la produzione nazionale: il rispecchiamento sociale. L'abbeveramento a fonti esterne, o a un passato non necessariamente mainstream, permette anche a I figli della notte di Andrea De Sica di farsi osservare con grande interesse.
Il film, ambientato in un collegio di montagna, algido e spaventoso quanto basta, può facilmente suscitare nel cinefilo un rosario di citazioni colte: Dario Argento, Michael Haneke, Stanley Kubrick, anche se forse - più che della sua stessa famiglia - De Sica è "figlio" dei film più arrischiati di Saverio Costanzo. Alcune atmosfere rimandano a La solitudine dei numeri primi e In memoria di me, e del resto proprio Costanzo, con Hungry Hearts, ha mostrato di credere fino in fondo alla fusione di cinema d'autore, dramma, thriller, occulto.
L'ambiente claustrale ha sempre permesso al cinema italiano di imporre violente metafore dell'asfissia sociale e culturale del Paese, e di ragionare con simboli al tempo stesso ermetici e chiari sul senso delle istituzioni e sulle loro pratiche illiberali.
E così si potrebbe alludere anche a Todo Modo di Elio Petri, Marcia trionfale e soprattutto Nel nome del padre di Marco Bellocchio, fino ovviamente a Salò di Pasolini - ma sarebbe francamente spingersi troppo lontano.
De Sica, in verità, riesce a sfidare cotanti modelli e a sfilarsi da facili confronti, grazie a un radicamento molto forte sugli attori (acerbi ma credibili) e sugli spazi. Inoltre, meno esibita rispetto al cinema degli anni Settanta, c'è una vena polemica tutt'altro che disprezzabile. Il collegio non ha a che fare questa volta con la Chiesa, il Partito, l'Esercito, ovvero istituzioni disciplinari che all'epoca divenivano facile bersaglio dei nostri migliori autori militanti. Questa è la scuola dei grandi capitalisti e dei rampolli, di cui di solito si pensa non abbiano avuto nella loro vita alcun rito di passaggio o percorso di sofferenza personale.
De Sica, invece, immagina questi figli di ricche (e disastrate) famiglie come soggetti che vengono sottoposti a prove psicologiche. Non si tratta di episodi di sadismo in stile Full Metal Jacket (a parte goliardate tutto sommato innocue), ma di machiavellici piani per estrarre in loro una vena spietata, criminogena ed egocentrica. La loro potenziale natura, insomma.
All'interno di un'opera prima molto breve (nemmeno 80 minuti) e compatta, ad assumere il giusto rilievo sono i particolari - quelli che infine distinguono le prove ambiziose ma impalpabili da quelle più attrezzate e lucide, dalla musica (originale e non) alla scelta dei punti di ripresa e osservazione.
Ovviamente, per registi come Andrea De Sica, Roberto De Paolis, Grassadonia e Piazza, Marco Danieli, Edoardo De Angelis e molti altri di quelli che realizzano un cinema in controtendenza e "di antitesi", bisognerà vedere se esiste una sostenibilità anche in termini di spettatore, per ora piuttosto pigro. Questo, però, è il grande tema della "biodiversità" cinematografica italiana, che comincia ad avere una discreta filmografia di riferimento ma deve presto trovare un suo pubblico - e una filiera specifica in grado di valorizzarla.