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James Dean, Forever Young

ONDA&FUORIONDA di Pino Farinotti.
di Pino Farinotti

In foto James Dean.
James Dean (James Byron Dean) 8 febbraio 1931, Marion (Indiana - USA) - 30 Settembre 1955, Paso Robles (California - USA).

domenica 4 ottobre 2015 - Focus

Forever Young è un documentario del 2008, della Warner, che racconta la storia di James Dean; è un filmato corretto, didascalico, ma vicino alla verità. Dean morì il 30 settembre del 1955, era al volante della sua Porsche 550 spyder, sulla U.S. Route 466, a est di Cholame, California. È forse l'incidente automobilistico più "popolare" della storia. A sessant'anni dalla morte uscirà un film sulla sua vita, Life, diretto da Anton Corbijn, con Dane DeHaan nella parte di Dean. La massa, della carta e dello schermo, grande e piccolo, che racconta la storia di un attore non ha uguali. Eppure in quel 1955 James aveva solo 24 anni. Aveva bruciato tutte le tappe, della vita e della carriera. Un primo dato, fortunato: fu il primo vero giovane del cinema. Allora erano magari i quarantenni che venivano adattati, perché le Major investivano sui divi e per diventarlo ci voleva del tempo. Un'altra circostanza fortunata veniva da un best seller di J.D. Salinger, uscito nel 1951, "Il giovane Holden". Il ragazzo protagonista Holden Caulfield si ribella a tutte le autorità: del padre, della scuola, delle istituzioni. Holden si impose e dettò un modello dal quale è stato impossibile prescindere.

Anche adesso. Dean era un perfetto Holden, così come lo immaginò il regista Elia Kazan ne La valle dell'Eden, Nicholas Ray in Gioventù bruciata, e poi George Stevens ne Il gigante.
Cal, Dick e Jett, i personaggi di Dean, sono tutti, rigorosamente, ribelli. Veniva da una famiglia infelice e negativa, poco più che adolescente scelse New York. La fase di New York è decisiva. C'è un'immagine che identifica James e la città, del 1952, dove lui si stringe nel cappotto, la sigaretta in bocca, nel freddo. Fu lì che cominciò, fu lì che venne accolto all'Actor's Studio, la fucina che stava cambiando il cinema. New York degli anni cinquanta era perfetta per un giovane con passione, che intendeva formarsi e avere successo. La città era il centro di tutte le attività creative. Tante rivoluzioni, nella pittura, nel jazz, nella musica pop. Per strada si incontravano attori del metodo, musicisti, scrittori e poeti, alcuni magari velleitari, ma altri no. E poi critici, ballerini classici e leggeri. Era la stagione trionfale di Broadway, coi suoi musical e i suoi drammi. Opere di Williams, o Miller. Il 1952, è forse l'anno più bello e spettacolare di tutto il cinema: Luci della ribalta, Mezzogiorno di fuoco, Un uomo tranquillo, Cantando sotto la pioggia, Scaramouche, La regina d'Africa, e altri. New York aveva preso il testimone dalla Parigi degli anni venti. Evolvendo e rilanciando. Ed è un testimone che avrebbe impugnato in altre stagioni, anche in questa. Ci stava che il giovane James provasse tutte le strade. Ma funzionava. Partecipava ai casting e veniva sistematicamente scelto. E non è che mancassero antagonisti, gente come Paul Newman, Rod Steiger, Eli Wallach, Anthony Franciosa, Ben Gazzara, e altri. Notato da Elia Kazan decollò all'istante. La Warner lo impiegava in più set contemporaneamente. Chi non lo odiava lo detestava. Raymond Massey, che ne La valle dell'Eden fa il padre di Dean, si sentiva male ogni volta che doveva girare una scena con lui. Rock Hudson, ne Il gigante fu più volte trattenuto dalla troupe perché voleva "spaccargli la faccia". Marlon Brando, di sette anni più grande, se lo trovava dovunque. Dean lo considerava un maestro e un dio. Molte volte Marlon, in qualche locale, veniva avvertito, "guarda che c'è il matto", e lui sgusciava via dal retro. Una volta non poté evitarlo ma fu abbastanza gentile: "hai grande talento", gli disse, "lasciami perdere, non hai bisogno di me". Fu meno gentile nel commiato "e smettila di rompermi i coglioni".

Definirlo matto non era improprio. Intendeva la professione come dolore e sacralità. Faceva cose strane. Una volta per esprimere dolore vero si fece spegnere una sigaretta su una mano. Un'altra, per reagire a una paura, si portò davanti al pubblico che assisteva a una ripresa de Il gigante si tirò giù i pantaloni e orinò davanti a tutti. Ma come attore era un vero diamante, grezzo. E aveva la qualità dei semidei del cinema, se c'era lui gli altri sparivano. Come con Marilyn. Eppure non era un granchè, fisicamente. Alto poco più di un metro e settanta neppure così proporzionato, ma quando c'era di mezzo la cinepresa gli si accendeva la luce. Rivisto adesso nei suoi film è eccessivo, artificioso, di maniera estrema. A volte è anche insopportabile. Ma rimane quel diamante, e non gli togli gli occhi di dosso.

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