Meraviglia e tenerezza si combinano nel film di Isaiah Saxon per rievocare, omaggiare e rivisitare una stagione cinematografica che ha formato moltissimi registi - su tutti Steven Spielberg - e spettatori adulti di oggi. Dall'8 maggio al cinema.
di Marianna Cappi
C’è stato un tempo in cui il cinema parlava ai ragazzi di loro stessi, fornendo uno strumento di intrattenimento e contemporaneamente di supporto alla crescita, di scoperta del mondo. Erano film, quelli di Steven Spielberg, Joe Dante, Richard Donner, Barry Levinson, prodotti in America negli anni Ottanta, in cui i protagonisti stessi erano preadolescenti, alle prese con avventure più grandi di loro, e spesso, anche o soprattutto, con problemi familiari.
Il film d’esordio di Isaiah Saxon, The Legend of Ochi, si rifà a quel cinema e racconta della giovane Yuri (Helena Zengel) che vive con il padre (Willem Dafoe) in un angolo sferzato dal vento di un’isola del Mar Nero. Yuri è l’unica femmina di un gruppo di ragazzini capitanati da un capobranco dispotico e un po’ bestiale, profondamente smarrito, che è appunto il padre di lei. L’uomo li ha cresciuti e addestrati a vedere nella natura un pericolo e negli animali della foresta dei nemici. Gli Ochi in particolare, creature mitologiche simili a goblin (chiaro omaggio ai Gremlins di Joe Dante), sono oggetto di un odio atavico da parte dell’adulto, causa e effetto della sua ferita sentimentale.
Come nei film della Amblin, dunque, e in E.T. in particolare, il genitore è assente o incapace di capire; madre e padre sono divisi, e questo crea un vuoto emotivo e sentimentale nei giovani protagonisti, che viene riempito dall’incontro con una creatura speciale, a sua volta vittima dell’incomprensione generale, bisognosa di cura esattamente come lo sono i giovani personaggi principali.
Nel film di Saxon, Yuri disobbedisce al padre (e riscopre a sua insaputa l’eredità materna) proprio sul terreno che più lo ossessiona: quello delle creature selvagge. Come in E.T. la missione della giovane protagonista diventa quella di riportare a casa il cucciolo di ochi che ha trovato e nascosto, per metterlo al sicuro, e, là dove lo scambio di sangue tra E.T. e Elliott amplificava una comunione di sentimenti, quasi una simbiosi emotiva, il morso dell’ochi svela in Yuri il potere di comunicare con lui. Stavolta però il rispecchiamento si gioca su un altro piano rispetto a quello del sentire: entrambi hanno bisogno di ritrovare una casa e di ricongiungersi con una madre lontana. Gli ochi, inoltre, non appartengono a un altro mondo, sono creature del nostro pianeta; siamo noi che abitiamo il loro territorio. Yuri e il piccolo Ochi, dunque, non vanno incontro a una separazione ma, al contrario, a una speranza di coabitazione.
Sull’onda dell’omaggio al cinema che ci ha fatto sognare da bambini, Saxon ha puntato molto sull’artigianalità della messa in scena, utilizzando il più possibile animatronics e burattini e limitando l’utilizzo della CGI alle scene più complesse o alla riprese in campo lungo. Ha realizzato di propria mano centinaia di dipinti e girato il più possibile in location reali in Romania (per la precisione in Transilvania, sui monti Apuseni). Il risultato è la creazione di un mondo straordinario, che sembra il sogno di un bambino, o il suo incubo.
L’incantesimo alla Spielberg, purtroppo, non si compie pienamente: il rapporto tra il cucciolo di ochi e la giovane umana non raggiunge la profondità di quello tra Elliott e E.T. e The Legend of ochi assomiglia più a un film sulla vita con un genitore disfunzionale che a un film sull’amicizia; eppure non c’è dubbio che l’avventura, la meraviglia e la tenerezza si combinino nel film per rievocare, omaggiare e rivisitare quella stagione del cinema che ha formato moltissimi registi e spettatori adulti di oggi.
L’impiego di Finn Wolfhard, infine, per quanto in un ruolo dimesso e quasi senza parole, nel quale l’attore presta soltanto (ed efficacemente) il fisico alto e sottile, si legge anche in questo senso, e cioè come elemento di raccordo. Wolfhard nasce con Stranger Things, la serie con cui i fratelli Duffer hanno catalogato e reinventato il genere, cresce con Ghostbuster: Legacy, e s’impone come la reincarnazione dell’eroe ragazzo di un nuovo cinema che del modello degli anni Ottanta rinnova la classicità dello stile di racconto e l’apertura all’immaginazione.