Pur con i suoi difetti, il film di Todd Haynes ci permette di osservare da vicino ciò che dovrebbe importare più che mai alla critica, il ruolo del cinema nella contemporaneità. Presentato a Cannes e ora in sala.
di Roy Menarini
L'archeologia dei media è una branca sempre più vivace delle ricerche contemporanee. Come categoria, sembra un controsenso. Come stanno insieme archeologia e media? Se ci togliamo però gli occhiali della contemporaneità (immersi come siamo nelle tecnologie digitali) e indossiamo quelli dello storico, intuiamo come il cinema altro non sia che un grande mezzo espressivo di passaggio tra vari periodo di culture visuali, prima e dopo.
Todd Haynes, e prima di lui Brian Selznick - autore del romanzo illustrato da cui La stanza delle meraviglie (guarda la video recensione) è tratto - hanno pensato a tutto questo creando due opere - libro e film - fortemente debitrici della nostalgia per le antiche forme del vedere.
Durante la narrazione, sospesa e intrecciata tra 1927 e 1997 (e simbolicamente il film è stato presentato a Cannes 2017), si parla di museo, illustrazione, wunderkammer, miniatura, collezionismo, panorama, diorama, cinema primitivo, pre-cinema, fiera, esposizione universale, e si squadernano tecniche come il colore, il bianco e nero, il passo uno, il montaggio alternato e il montaggio sincronico, il flash-back, l'iris, il cinema nel cinema e altro ancora.
Dunque, La stanza delle meraviglie è un catalogo. Un catalogo che mette in dialogo la cultura ottica che ha dato vita al cinema e il cinema stesso, passando attraverso la cinefilia, dato costante dell'opera di Todd Haynes, sempre a cavallo tra punte più sperimentali (Safe, Io non sono qui) e opere più accademiche (oltre a questo, anche Lontano dal Paradiso e Carol).
Pur con tale armamentario di conoscenze e profonda competenza storica, La stanza delle meraviglie sembra più un'occasione mancata che un film perfettamente riuscito. Fatto salvo il massimo rispetto per l'autore, nonché per il suo grande direttore della fotografia Ed Lachman, sembra di trovarsi di fronte al più classico caso di "capolavoro mancato". Ma, invece di lamentarsi per qualche spiegazione di troppo e per una storia di influenza melodrammatica che purtroppo diviene chiara già a metà del racconto, bisogna chiedersi perché il film è stato accolto freddamente e quale sia il motivo del mancato coinvolgimento emotivo di tanti spettatori e commentatori.
Una proposta interpretativa: Martin Scorsese, nel portare sullo schermo il precedente libro illustrato di Selznick (Hugo Cabret, altrettanto "archeologico" e cinefilo) si era reso conto che avrebbe dovuto scommettere su alcune scelte apriori, tra cui il 3D (uno dei più poetici di sempre) e la potenzialità del personaggio di Mélìès; in questo modo è riuscito ad appropriarsi del romanzo e a farne uno struggente inno all'immaginazione e al futuro del cinema, proprio mentre parlava del passato (e riuscendo persino a fare una sorta di auto-analisi del suo cinema).
Nel caso di Haynes, invece, le migliori intenzioni non sono supportate da una altrettanto lucida consapevolezza sul progetto formale da mettere in atto. E il cinema, in quanto mezzo espressivo del Novecento ora in balia di diverse identità, rischia di assumere appunto l'aspetto dell'archivio, del registro e del museo. Ciò non significa che La stanza delle meraviglie sia un film da ignorare, anzi ci permette di osservare ancor più da vicino ciò che dovrebbe importare più che mai alla critica: che cos'è il cinema, oggi?