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Notte italiana

"Dobbiamo parlare" è come dire "Vogliamo vivere": un'analisi socioculturale del film di Sergio Rubini. Dal 19 novembre al cinema.
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Isabella Ragonese (43 anni) 19 maggio 1981, Palermo (Italia) - Toro. Interpreta Linda nel film di Sergio Rubini Dobbiamo parlare.

giovedì 12 novembre 2015 - Focus

Dobbiamo parlare, di primo acchito, ci fa pensare all'espressione di chi ci annuncia un confronto serio e preoccupante, come spiegano anche i materiali di lancio del nuovo film di Sergio Rubini. Ma se leggiamo la frase in altro modo, "dobbiamo" può anche diventare sinonimo di "siamo costretti a", "non possiamo fare altro che", quindi nel senso di "parlare è il nostro dovere".
La sfumatura non è peregrina, dal momento in cui il film chiude i suoi protagonisti in pochi metri quadri e li costringe a un confronto verbale continuo e ossessivo. Non è certo la prima volta che il cinema italiano utilizza questa modalità di racconto e messa in scena. E se l'esempio recente di Il nome del figlio corre alla memoria anche per alcune similitudini nel rappresentare l'incarnazione delle due Italie (destra e sinistra, o presunti conservatori contro presunti progressisti), non si possono dimenticare altri titoli come La terrazza, Italia-Germania 4-3, Parenti serpenti, Il pranzo della domenica, La cena per farli conoscere, e così via. Ultimamente, anche il cinema d'autore internazionale ha proceduto in tal senso, come dimostra Carnage. Meglio però non peccare di esterofilia: se il film di Polanski aveva dalla sua alcune intuizioni da maestro, la pièce - sia pure molto premiata - di Yasmina Reza era tutt'altro che irresistibile, e certamente non superiore ai migliori tra i film italiani appena ricordati.
La parola in sé, tornando al tema, è al centro di dinamiche di potere, identità, confronto, espressione. In Italia, patria del melodramma e della canzone, nonché di una storia della lingua parlata straordinaria e ricchissima, la parola conta di più. Pesa assai. Assume un valore simbolico decisivo. In tutte le sue sfumature regionali, psicologiche, personali e istituzionali, racconta al meglio la nostra società. Non è derivazione teatrale, è al contrario una forma di purezza del cinema umanista: "Dobbiamo parlare" è insomma come dire "Vogliamo vivere". Il cinema italiano deve parlare, per vivere.
Nel film di Rubini pare di intravedere un diverso atteggiamento rispetto ai film sopra citati. Un conto è osservare l'Italia di ieri e di oggi attraverso un dibattito aspro e distruttivo tra i personaggi (si veda per esempio il confronto al tavolo da gioco di Due partite di Cristina Comencini). Altro è - come in questo caso - aggiungere un aspetto di autocritica. Quando il personaggio del primario interpretato da Fabrizio Bentivoglio urla a Vanni (Sergio Rubini) "Ma perché voti PD?", siamo già oltre il rischio di una battuta buona due-tre anni fa - prima cioè del renzismo, prima del grillismo, prima che la politica italiana si perdesse nei molti e contraddittori rivoli di oggi, che si dicono non a caso post-ideologici. È una battuta che inchioda i personaggi al loro infantilismo: pensano ancora che i partiti di destra e sinistra riassumano un'appartenenza. Scaricano la rabbia su istituzioni esterne. Si rinfacciano appartenenze politiche ormai disusate. Si aggrappano al passato con isteria. In breve, esprimono una frustrazione.
La frustrazione è il sentimento dominante dell'Italia contemporanea. La crisi economica ha prodotto danni, ma anche fornito alibi. La frustrazione, dal punto di vista clinico, è l'impossibilità di coronare i propri scopi e soddisfare le proprie aspettative rispetto al raggiungimento di qualcosa che si crede proporzionato al proprio valore. Se la frustrazione diventa ingestibile, si trasforma in aggressività verso il prossimo. Ciò che accade puntualmente nel film.
È interessante che Rubini non abbia voluto legare i suoi quattro protagonisti ad alcun vincolo famigliare. Sono amici, e basta. Una coppia non ha figli, l'altra ha figli di primo letto. Nulla di famigliare lega gli uni agli altri, nemmeno all'interno dei matrimoni. Sono individui che, lasciandosi, si dovrebbero spartire gli averi, ma nessuna eredità di sangue. Questa semplice scelta trasforma Dobbiamo parlare in un oggetto differente, perché esprime una solitudine e una deresponsabilizzazione totali.
Ogni personaggio si rifiuta di assumersi le proprie responsabilità, ed è come se ciascuno, prima o dopo, utilizzasse nel suo piccolo le strategie mediatiche e politiche dell'Italia contemporanea: l'ipocrisia del compromesso, la dissimulazione della colpa, la macchina del fango reciproco, l'alleanza momentanea per danneggiare il nemico, la ricomposizione per autodifesa, l'accordo per scaricare la colpa su altri, il favore personale al posto della solidarietà.
Un'opera molto dura, ancorché brillante nel suo svolgimento apparente, che si apparenta ad altri titoli di questi tempi nel tentativo di cogliere spiriti del tempo e sintesi socioculturali di una condizione che ai nostri autori (a quanto pare) non sembra affatto esaltante.

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