Ti ritrovi in Brianza, nelle ville extralusso dei milanesi bene, con il loro accento strafottente prima che fastidioso.
E ti trovi davanti un film di quelli che graffiano, che lasciano il segno non solo per la storia che raccontano ma soprattutto per come la raccontano.
Per ricostruire chi e come ha investito un ignaro e innocente ciclista, Virzì compone un film a quattro tempi, con tre protagonisti, e solo seguendoli, passo passo, ogni pezzo finisce nel posto giusto, ad ogni azione viene ricondotta la sua conseguenza.
Abbiamo Dino, uno che nella Milano bene vorrebbe tanto entrarci, e che vede nel fidanzato della figlia il biglietto di ingresso, tanto da addentrarsi con il suo fare viscido e finto bonaccione tra le grazie dei Bernaschi e concordare un affare che potrebbe finalmente arricchirlo. Peccato che la moglie sia incinta, e di due gemelli, e che i soldi per entrare nell'affare non li abbia.
Abbiamo Carla, moglie nevrotica e malinconica, che nasconde dietro acquisti e shopping compulsivo la precarietà del suo matrimonio e la sua vita infelice, trovando nel progetto di salvare un vecchio e storico teatro l'occasione per rinascere, per riscoprire anche un po' di amore, inevitabilmente portato a infrangersi.
Abbiamo Serena, che da sola ha più testa di tutti gli adulti presenti, che di stare con Massimiliano Bernaschi non ne ha proprio voglia, né con i suoi amici scapestrati che si divertono con i soldi di papà. E così il problematico Luca si fa interessante, il suo essere vero, anche se con tutte le difficoltà del caso, è molto più affascinante e attraente del mondo di macchinoni, droga e party a cui si è abituata.
Ma non sa che sarà proprio lei il filo conduttore della vicenda, la costante per cui tutto si possa collegare e portare a quell'incidente, a quella morte.
L'ultimo capitolo di un film ad incastro, è proprio il Capitale Umano, e quei fili li tira, mostrandoci da lontano quanto costruito, quanto lasciato e fatto.
Quello che ne esce è un ritratto impietoso di padri e madri che prima di rovinare il Paese hanno rovinato i loro figli, con la certezza che pur nella giustizia quello che si compie ha il sapore amaro dell'ingiustizia.
Nel dramma che Virzì compone, quindi, i graffi non mancano, né a quella Brianza che si è sentita mal rappresentata né ad un cinema italiano che quando si discosta dalle solite commedie esalta e fa applaudire.
Perchè come detto non è solo la storia, ben scritta e avvolgente, che lascia il segno, ma anche la maestria di come questa ti è raccontato, attraverso tempi che avanzano e tornano indietro, che scoprono, finalmente, che mostrano.
La mano esperta di Virzì si estende ai suoi attori, che danno sostanza anche ai cliché, e così l'odio verso il diverso modo di essere subdoli si fa palpabile in Fabrizio Gifuni e Fabrizio Bentivoglio, Valeria Golino e Luigi Lo Cascio, seppur relegati, si fanno umani e teneri, e la sibilante Valeria Bruni Tedeschi riesce a fare dei suoi difetti di attrice di nicchia i suoi punti forti.
Ma la vera sorpresa sta nei giovani, nell'esordiente e folgorante Matilde Gioli che incanta e convince come difficilmente succede da queste parti per parti simili.
Con il senno di poi, quindi, quei giorni, quelle settimane e quei mesi di poca voglia e di naso sempre più storto, sono stati spazzati via in una serata, in cui ci si è ricreduti, e si ha assistito a un film che meritatamente e immeritatamente ci rappresenta e ci rappresenterà.
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