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Brianza, in fondo a destra

Politicità di Il capitale umano.
di Roy Menarini

In foto una scena del film Il capitale umano di Paolo Virzì.

sabato 11 gennaio 2014 - Approfondimenti

Quasi a sorpresa, in questi giorni è esplosa la polemica intorno a Il capitale umano di Paolo Virzì, ambientato in una fantomatica cittadina della Brianza, teatro di un dramma finanziario che corrode anime e vite, comprese le più semplici. Alcuni rappresentanti politici del luogo hanno protestato contro l'equivalenza geografica tra luogo e pratica industriale, tra paesaggio architettonico e cinismo antropologico che il film sembra suggerire (avvalorato per lo più da alcune dichiarazioni del regista).
La parzialità e il campanilismo di questi difensori del "genius loci" sono sufficientemente grossolani per non ferire troppo i realizzatori del film, eppure ci sembra che la questione non possa essere liquidata con uno scambio di frecciate sui social network.

Vedendo il film con animo equilibrato e senza pregiudizi, la sensazione di un ritratto apocalittico sussiste. Nel cinema di Virzì abbiamo sempre apprezzato l'onestà intellettuale, specie in pellicole come Tutta la vita davanti dove - insieme alla desolazione umana dei call center e del lavoro interinale - non minore sarcasmo veniva destinato alle inconsapevoli, impolitiche masse di ragazze scioccamente entusiaste della squallida competizione interna, e della spettacolarizzazione imposta dalla "kapò" interpretata da Sabrina Ferilli nel suo ruolo a tutt'oggi più eclatante.
Lo stesso vale per altri ritratti umani, che dalla commedia all'italiana traevano, anche grazie al ruolo degli sceneggiatori storici (Francesco Bruni in primis), le punte più velenose di quella deformazione grottesca capace di trasformarsi in mostruosa. In questo ultimo film, dove la provincia d'un Pietro Germi sembra sorprendentemente mescolarsi con la narrazione americana (intesa come cinema letteratura e televisione), pare che si torni di nuovo a Ferie d'agosto, che aveva il merito di intuire una spaccatura devastante tra due Italie, quelle che ci hanno accompagnato per molti anni.
Ora, però, il paesaggio antropologico è cambiato. Ci sono almeno tre Italie, il voto è diventato fluido, la storia del PCI è stata rottamata, c'è Grillo, ci sono i Forconi, c'è una atomizzazione sociale e culturale che i sociologi e gli storici ancora faticano a inquadrare, ci sono nuove generazioni completamente sconosciute e incomprese dal nostro cinema e dalla nostra fiction, insomma siamo da un paio d'anni entrati nell'universo caotico e confuso del post-berlusconismo e del post-PD. Il capitale umano (sarà per quel titolo che, pur identico a quello del romanzo di Amidon, non può che ricordare Marx) ci riporta invece al "noi o loro", alla diversità antropologica del poeta di sinistra e del capitalista di destra, della barricata erta tra un'Italia e un'altra, dove gli unici punti di contatto sono dovuti al potere corruttivo del capitalismo finanziario (curiosamente presente anche in Sole a catinelle e Un boss in salotto, sia pure più all'acqua di rose), con piccolo borghesi travolti dal virus degli "altri", dei cattivi e dei demoni in cravatta e macchinona.

Ci sono naturalmente delle risposte possibili a questa sensazione: il film pare ambientato all'inizio della crisi, dunque assumerebbe un valore storico. Inoltre, Virzì, Bruni e Piccolo (il cui recente volume, "Il desiderio di essere come tutti", andrebbe letto a latere del film) hanno tutto il diritto di fare un film anti-renziano come questo, dove alle aperture del nuovo segretario PD - che ha sempre sponsorizzato il dialogo con il nemico d'un tempo, sia esso Berlusconi, Marchionne o la De Filippi - si contrappone la conferma di una distanza politica, culturale e soprattutto umana con quel pezzo d'identità nazionale.
Comunque la si pensi, è probabile che del Capitale umano si parlerà ancora a lungo e questo, al di là dei gusti personali, non può che fare bene a tutti.

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