C’è una Brianza ricca, agiata, fatta di borghesi impomatati,arrivisti e imbroglioni. C’è ne è un'altra di eterni illusi, quelli che credono ancora nella stangata, nella rivalsa sociale attraverso investimenti azzardati alla ricerca dell’agiatezza morale ed economica a lungo bramata. C’e una Brianza in cui non filtra la luce che rimane imprigionata, intrappolata sotto una patina di ipocrisia e sornione quieto vivere, dove ogni cosa (compresa l’anima) ha un prezzo, un capitale, stravolta da una girandola di speculazioni ove tutti sono vittime volontarie o inconsapevoli.
Virzì sceglie di abbandonare con coraggio il placido panorama toscano per immergersi nella fosca Lombardia, il paradiso degli squali e degli sciacalli oltre che di altre lugubre bestioline estranee al suo pensiero da commediografo di adolescenze perdute. Il regista parla di apologo, di metafora (la città Ornate nulla ha di reale) della nostra società industrializzata ridotta a una Zattera della medusa, delineandoil ritratto di un paese in crisi totalmente allo sbando che pare aver perduto tutti i suoi valori alla base dei quali alberga solo il denaro e la speculazione edilizia, motivi fondanti della società capitalistica.
Il soggetto robusto retto da Piccolo e Bruni ci mostra due complementary opposites, due famiglie che nulla avrebbero da spartire ma accomunate da un tragico evento presentato all’inizio del film: una notte, quella della vigilia di Natale, sulla provinciale di Ornate un cameriere al rientro dal lavoro in bici viene investito da un Suv. Questo il pretesto utilizzato da Virzì per descrivere con l’uso di astuti flash-back e capitoli incentrati sui personaggi principali delle due famiglie il punto di vista dei protagonisti dinanzi al delitto.
Perché di omicidio colposo e omissione di soccorso ben si tratta e da questo spunto che potrebbe aprire le porte al thriller il regista livornese evita intelligentemente i clichè da noir ponendo l’accento sugli scheletri nell’armadio delle due “famiglie tipo”. Sfilano quindi dinanzi ai nostri occhi di spettatori il grande girotondo di cinismo, motore e filo comune di un’umanità di umiliati e offesi, di gente comune che - chissà quante ce ne sono - albergano nascoste e sopite nella piccola provincia. C’è l’ingenuo (almeno inizialmente) Dino Ossola, titolare di un’agenzia immobiliare che mette tutti i suoi averi sulla bilancia per guadagnare soldi facili attraverso la partecipazione al fondo di investimento del milionario Carlo Bernaschi il cui figlioccio inquieto intrattiene una liason “non propriamente corrisposta” con la figlia di Dino; ci sono le rispettive consorti, Carla e Roberta, la prima remissiva,incapace di vivere nella realtà immersa nel suo sogno di rinverdire l’anima del teatro (il Politeama di Como) con partecipazioni a un fondo per il recupero del teatro cittadino, la seconda, Roberta, psicologa, in cinta di due gemelli presa dal suo sogno di maternità e dalla sua missione, incapace di valutare con lucida fermezza le mosse azzardate del marito di cui è complice inconsapevole.
Intorno a loro ruotano come satelliti i figli di Dino e Carlo, non più bambini ma ancora dipendenti malgrado le apparenze dai genitori, esecutori materiali del cinico vivere delle due famiglie: l’opulenza sfarzosa di Bernaschi prototipo dell’arrivista senza scrupoli e proprietario di un impero economico frutto di imbrogli e speculazioni edilizie alla medio-borghesia di Ossola che non si fa scrupolo di vendere i sentimenti della figlia per ascendere prima socialmente e poi scemare moralmente con la bieca arte del ricatto…
I soldi, profumo della vita (sic) e più in generale prestigio sociale, divengono paradisi perduti di miltoniana memoria e poco importa se la strada è lastricata di imbrogli, bassezze morali o bieche manipolazioni sulla morte di disgraziati innocenti: occorre apparire anche a costo di avere un’anima nera,scura e tenebrosa come la vendetta. Una vendetta che non risparmierà nessuno e che avrà conseguenze indelebili sullo status quo dei Bernaschi e degli Ossola minando pesantemente la loro oramai perduta dignità intellettuale.
Tradurre un romanzo americano ambientato in Connecticut in uno più propriamente “nostrano” è stata soltanto la scintilla che ha dato origine allo “scoppio” di un riuscito meccanismo di incastri in cui Virzì pur con qualche caduta di stile nella parte dedicata alla storia di Serena, figlia di Ossola, si muove abilmente dimostrando di conoscere con chiarezza e senza enfasi moralistica l’ambiente sociale quotidiano della nuova borghesia lombarda condendo i dialoghi con un umorismo sottile e amaro che sfiora a tratti il grottesco.
Grazie all’interpretazione di un cast ben affiatato che ha come punte di diamante Fabrizio Bentivoglio e Fabrizio Gifuni, le due antitesi per eccellenza, lo sprovveduto e l’arpia, Il capitale umano vanta anche il cameo di Luigi Lo Cascio, professore di lettere amante del teatro di Carmelo Bene (e più prosaicamente della moglie di Bernaschi) simbolo di una letteratura oramai in crisi che ha preferito assoggettarsi ai privilegi dei ricchi perdendo la propria indipendenza e libertà, come la vita in generale che questo film mercifica a ente materiale.
Quanto vale questo capitale umano, quest’ultimo scampolo di concessione umanitaria deprezzata dei sentimenti e delle aspirazioni? Poco più di duecentomila euro. Ma i parametri cambiano sulla base dell’età ,dello stile di vita,delle aspirazioni, dei titoli di studio.
Un numero per rappresentare la vita. Il prosaico,materiale pezzo di carta che ne sancisce il valore, sintetico e irrevocabile. Il capitale umano.
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