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Se vi piace il piano sequenza questo è il film che fa per voi. In Birdman, una manciata di stacchi, mascherati con gli effetti speciali, tiene insieme un girato praticamente ininterrotto di quasi due ore, interamente realizzato con la steadicam. Prima ancora di essere una scelta tecnica, questa forma di racconto è, per il messicano Alejandro González Iñárritu (21 Grammi, Babel, Biutiful), una compiuta scelta espressiva. Stavolta il nostro vede un potenziale nella proiezione completamente priva di montaggio già celebrata da Wells e decide pertanto di rilanciarla alla grande. Nel film, la macchina da presa esplora in continuazione il backstage di un teatro di Broadway, seguendo a ruota i personaggi, quasi tutti attori, mentre parlano e si muovono all’interno e all’esterno del teatro stesso, raccontando il loro vissuto personale, le vicende della pièce che stanno preparando e il loro tormento interiore di celebratori dell’Arte con la a maiuscola. Il tutto si svolge nel breve volgere dei tre giorni (forse, non si capisce bene), scanditi dalla manciata di anteprime che precedono la prima vera e propria.
Ne viene fuori una serie impressionante di prove d’attore, a partire da Michael Keaton, che se possibile si supera in continuazione, fino (in ordine causale) a Naomi Watts, Edward Norton, a un inedito Zack Galifianakis, una volta tanto mai sopra le righe, Andrea Riseborough, Amy Ryan, Lindsay Duncan, Merrit Weaver e all’apparizione di Bill Camp, che lo scrivente onestamente non conosceva, ma che a quanto pare non è affatto sconosciuto a Broadway.
Il film, va detto subito, a essere ben fatto è ben fatto, ma va preso con qualche precauzione per via della storia che, forse, per il grande pubblico non risulterà poi così avvincente. Si tratta infatti, a dire pane al pane, di poco più della narrazione delle vicissitudini e delle beghe personali di una manciata di attori che allestisce una commedia. Trama e intreccio sono così sottili che la profondità è giocata quasi solo sull’interpretazione, esaltata da una specifica strategia narrativa che consiste nello stringere la vicenda in una morsa di dialoghi serrati, con azioni ridotte all’osso e un uso generoso di primi piani. Sono i dialoghi, infatti, che narrano, non la macchina da presa, che si limita a restare incollata sugli interpreti, tanto che verrebbe da dire che questo è teatro, non cinema. E infatti, giunti alla fine dobbiamo concludere che è proprio così: è teatro, del grande teatro, raccontato però dal cinema.
Il finale viene di proposito lasciato in sospeso da Iñárritu, che compie così una scelta azzeccata perché un esperimento estremo come questo non sopporterebbe un finale.
Da osservare bene i duetti tra Keaton (Thomson) e Norton (Shiner), soprattutto negli episodi minori, come quando i loro personaggi si esibiscono durante le prove della pièce. Nel film, Thomson è un attore di talento al tramonto della sua carriera; bravo, ma non quanto Shiner, che invece è una star di Hollywood all’apice del successo. Con pochi colpi d’ala, Keaton riesce a rendere in modo sublime il personaggio di un attore che, sulla scena, recitando in modo appena mediocre, per contrasto rende perfetto Norton.
Purtroppo, o per fortuna, per la fruizione di un tale impianto il doppiaggio è davvero fondamentale, perciò a causa di quella che probabilmente è una delle migliori scuole del mondo, la nostra, quest’ultimo aumenta e ci mette del suo, rendendo impossibile il giudizio definitivo.
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